Dott.ssa Alessandra Gambineri (Bologna): “Il percorso diagnostico-terapeutico assistenziale va costruito intorno al caregiver che si fa carico del malato”
Il Congresso “Il paziente con Lipodistrofia - Dal sospetto diagnostico alla presa in carico multidisciplinare”, svoltosi pochi mesi fa a Milano, ha dato modo ai medici specialisti nei diversi settori interessati da questo gruppo di malattie di riunirsi e tracciare un profilo che dalla diagnosi si è poi spostato sulla terapia e sulla corretta presa in carico dei malati. Se la seconda parte dell’evento è stata improntata sulla presentazione dei casi clinici - indispensabili per la formazione dei nuovi medici - nella prima è, invece, emersa la poliedricità delle lipodistrofie, così differenti da una forma all’altra ma che bisogna conoscere per accelerare il processo di diagnosi.
“Le lipodistrofie parziali implicano una perdita parziale di tessuto adiposo sottocutaneo che interessa solo alcune parti del corpo (soprattutto tronco e arti)”, precisa la dottoressa Alessandra Gambineri, dell’U.O.C. di Endocrinologia, Prevenzione e Cura del Diabete dell’IRCCS Policlinico S. Orsola di Bologna (clicca qui o sull’immagine dell’articolo per guardare la video-intervista). “Le forme generalizzate, al contrario, prevedono una perdita totale che può essere evidente sin dalla nascita oppure iniziare in un dato momento della vita [soprattutto la pubertà, N.d.R.] e poi progredire nel tempo. La differenza nell’entità della perdita del grasso si riflette sulla gravità clinica della malattia e sulle sue complicanze”.
Se le lipodistrofie possono essere definite “patologie dai mille volti”, occorre dotarsi di percorsi ben stabiliti attraverso cui inquadrarle e definirle con precisione, distinguendole ad esempio dalla sindrome di Cushing, dall’acromegalia o dall’iperplasia surrenale congenita. “Alla base del percorso diagnostico si colloca l’esame obiettivo, in cui si visita il paziente mediante il ricorso a test come la plicometria”, precisa Gambineri. “In seconda battuta subentrano gli esami di laboratorio di primo livello, con il dosaggio dei valori di trigliceridi, glucosio, insulina e funzionalità epatica, mediante cui rilevare eventuali alterazioni metaboliche”. Tra gli esami ematochimici di secondo livello ci sono i dosaggi di adiponectina e leptina i quali però, oltre a non esser diffusamente disponibili nei laboratori, devono esser richiesti solo in presenza di un sospetto concreto di lipodistrofia. “Gli esami strumentali radiologici o l’ecografia del fegato sono di supporto alla valutazione che, in ultima istanza, prevede l’esecuzione di test genetici [le lipodistrofie congenite sono ereditate con tratto autosomico recessivo, N.d.R.]”.
Riconoscere anche le forme meno gravi di malattia è essenziale per costruire un percorso diagnostico-terapeutico assistenziale che al centro colloca il caregiver. “Da qui partono le relazioni multidisciplinari con gli specialisti che, nel caso della lipodistrofia, sono rappresentati da cardiologi, nefrologi, neurologi, radiologi, epatologi e diabetologi”, conclude Gambineri. “Non deve mancare la possibilità di interfacciarsi con queste specialistiche ma senza dimenticare la figura del caregiver che, insieme al medico di riferimento, gestisce in ogni momento il paziente a 360 gradi”.
L’evento “Il paziente con Lipodistrofia - Dal sospetto diagnostico alla presa in carico multidisciplinare” è stato realizzato con il contributo incondizionato di Rare Diseases Chiesi Italia.
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