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Prof. Marco Cappa (Roma): “Il pediatra deve sempre essere attento ad ogni minimo particolare e svolgere un completo e dettagliato esame obiettivo sul paziente”

La lipodistrofia è una condizione rara e variegata, non facilmente distinguibile dal diabete dal momento che la comparsa della patologia si accompagna spesso a una netta alterazione del metabolismo del glucosio. All’incontro “Il paziente con Lipodistrofia - Dal sospetto diagnostico alla presa in carico multidisciplinare”, organizzato a Milano a fine dello scorso gennaio realizzato con il contributo incondizionato di Rare Diseases Chiesi Italia, la lente di ingrandimento si è posata proprio sulla relazione tra queste due malattie e sull’impatto del diabete nei bambini e negli adolescenti affetti da lipodistrofia.

Esistono, infatti, forme differenti di lipodistrofia: totale (di tipo congenito o acquisito) e parziale, con forme familiari e acquisite da non confondere proprio con i segni del diabete. “Alcune lipodistrofie, dette neonatali, si manifestano sin dalla nascita con una sintomatologia piuttosto chiara [gravi perdite di grasso sottocutaneo a livello di faccia, tronco e arti, muscoli in evidenza, persino irsutismo e ispessimento della cute, N.d.R.]”, afferma il professor Marco Cappa, Responsabile dell’Unità di Ricerca e Terapie Innovative nelle Endocrinopatie presso l’IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, riferendosi alle forme generalizzate o totali, che possono comportare anche epatomegalia, ipertensione, complicazioni renali e forme di insulino-resistenza (clicca qui o sull’immagine dell’articolo per guardare la video-intervista). “Poi ci sono le forme parziali, che insorgono più frequentemente intorno alla pubertà, quando i bambini sperimentano la perdita di tessuto adiposo”. Ciò rende queste forme ancora più difficili da diagnosticare: infatti, la muscolatura non è particolarmente in evidenza come accade invece nelle forme totali e anche l’ingrossamento del fegato (epatomegalia) non sempre è presente, mentre si riscontrano insulino-resistenza, iperglicemia e ipertrigliceridemia (aumento dei trigliceridi nel sangue). La diagnosi differenziale con altre malattie deve essere posta al più presto.

Le forme neonatali vanno distinte dal diabete neonatale o dal cosiddetto leprecaunismo”, afferma ancora Cappa. “Quelle parziali molte volte vengono confuse con la malattia di Cushing, con il gigantismo o l’acromegalia. Oppure con patologie epatiche, fra cui la steatosi epatica isolata”. Distinguere le lipodistrofie dal diabete mellito o da queste altre forme di malattia - che prevedono percorsi di cura differenti - serve a prendere in carico per tempo i pazienti e avviarli alla terapia che, sostanzialmente è di tipo dietetico con la riduzione dei trigliceridi a media catena. Ma come è possibile farlo?

Il pediatra deve effettuare al bambino una visita scrupolosa, guardandolo attentamente dalla punta dei piedi alla testa, in modo da potersi rendere conto se possegga delle caratteristiche in grado di far sospettare una lipodistrofia”, spiega l’esperto romano. “Per fare ciò serve tempo e occorre essere attenti ai minimi particolari”. A volte è sufficiente saper misurare il tessuto adiposo con un plicometro o palpare l’addome per capire se è troppo gonfio rispetto agli arti superiori o inferiori. In assenza di test diagnostici specifici il pediatra deve considerare le alterazioni del metabolismo dei lipidi e del glucosio e svolgere un attento esame obiettivo: in caso di sospetto il paziente deve essere inviato quanto prima presso un centro specializzato.

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