Infermiere

L’emergenza COVID si è rivelata un dramma per le famiglie dei pazienti, rimaste vittime dell’assenza e del continuo turnover del personale infermieristico

A Trinitapoli, in Puglia, l’emergenza Coronavirus è stata davvero devastante per la famiglia Spera: mamma, papà e tre figli, di cui due ragazzi affetti da ceroidolipofuscinosi neuronale (NCL): Vito, di 20 anni, e Andrea, di 17. La ceroidolipofuscinosi neuronale, nota anche come malattia di Batten, è una rara patologia genetica neurodegenerativa, a esordio tardo-infantile, che comporta il progressivo declino delle capacità cognitive e motorie, come anche cecità, epilessia farmaco-resistente, perdita della deglutizione e continue infezioni polmonari. “Oggi Vito e Andrea vivono in stato vegetativo, sono entrambi tracheostomizzati, respirano attraverso la ventilazione assistita e vengono alimentati artificialmente mediante la PEG”, racconta il papà Francesco, che è anche vice presidente dell’Associazione Nazionale Ceroidolipofuscinosi (A-NCL).

“Da dieci anni a questa parte, casa nostra somiglia a un reparto di Rianimazione”, prosegue Francesco. “Facciamo quotidianamente uso di dispositivi e strumenti con cui la maggioranza degli italiani ha cominciato a familiarizzare soltanto nell’ultimo anno: mascherine, saturimetri e ventilatori meccanici, solo per fare qualche esempio”. Ma la famiglia Spera è solo una delle tante in Italia ad essere state messe a dura prova dall’emergenza COVID, il cui impatto si è fatto duramente sentire sull’assistenza domiciliare, creando enormi problemi, soprattutto a livello di continuità assistenziale, a malati rari e nuclei familiari già provati dalla convivenza con patologie di complessa gestione e spesso impossibili da curare.

È proprio questo il caso di Vito e Andrea, che necessitano di una continua assistenza infermieristica: eppure, dalla prima ondata di COVID-19, le cose, già difficoltose in precedenza, sono letteralmente precipitate. “Da marzo fino all’inizio di giugno siamo rimasti completamente soli”, precisa Francesco. “A causa del reclutamento attuato dalla ASL per fronteggiare la pandemia, abbiamo perso tutto il personale infermieristico dedicato all'assistenza dei nostri figli”. Ma a giugno, quando l’assistenza domiciliare è ricominciata, i disagi non sono finiti, “determinati dai continui richiami delle ASL, che generano incessanti turnover di nuovi infermieri, gran parte dei quali neolaureati e purtroppo privi della professionalità necessaria a fronteggiare le criticità cliniche e assistenziali quotidiane di pazienti ad elevatissima complessità, nel nostro caso due”. Nonostante ripetuti appelli alle autorità sanitarie, e il coinvolgimento del Coordinamento Regionale Malattie Rare, la situazione non è però migliorata, ma anzi si è ulteriormente aggravata in autunno, in concomitanza con la seconda ondata di COVID-19, tanto che sul caso della famiglia Spera, pochi giorni fa, la Sen Paola Binetti, presidente dell’Intergruppo Parlamentare Malattie Rare, ha rivolto una specifica interrogazione al Ministro della Salute Roberto Speranza. “Anche gli infermieri arrivati a inizio giugno sono stati richiamati”, sottolinea infatti Francesco. “Nel periodo precedente, l'assistenza veniva erogata per sole 6 ore complessive, rispetto alle 12 previste dal Piano Assistenziale Individualizzato, ma a dicembre siamo rimasti completamente senza”.

Ma ciò che esaspera di più la famiglia Spera è il continuo turnover del personale infermieristico. “Noi siamo una famiglia ad altissima intensità e complessità assistenziale: i nostri figli sono al di là del livello 3, ovvero del livello più alto di assistenza riconosciuto”, conclude Francesco. “Il COVID ha messo in evidenza le lacune del sistema sanitario regionale. Ci vorrebbe un’assistenza ad alto grado di specializzazione e personalizzazione, e invece siamo costretti a confrontarci continuamente con personale alle prime armi. Come genitori siamo diventati i primi infermieri dei nostri figli e la nostra missione di vita è tenere stabili le loro condizioni di salute. Siamo anche disposti ad aiutare e sostenere i giovani infermieri che iniziano la loro carriera, purché però inseriti in percorsi professionali stabili: assistere i nostri ragazzi è un compito estremamente complesso e delicato, non ci si può improvvisare e non si può sempre ricominciare daccapo”.

Anche per Michela e Giovanni, una coppia che vive in provincia di Napoli, il COVID-19 ha rappresentato la cartina al tornasole di un sistema di assistenza già considerato inadeguato. Giovanni, che oggi ha 55 anni, ha ricevuto la diagnosi di sclerosi laterale amiotrofica (SLA) nel 2018, dopo alcuni mesi di avvisaglie che sembravano non trovare alcuna spiegazione se non nello stress da eccesso di lavoro. Purtroppo, la malattia ha avuto un’evoluzione piuttosto veloce: alla fine dello stesso anno, Giovanni ha smesso di camminare e, in seguito a una crisi respiratoria, è stato sottoposto a tracheostomia. “Il COVID-19 non ha fatto altro che aggravare problematiche già esistenti, come la mancanza cronica di infermieri”, afferma Michela. “L’assistenza domiciliare fa acqua da tutte le parti: a casa nostra sono passati tanti, troppi infermieri, e con l’emergenza sanitaria i più preparati sono andati a lavorare nelle strutture pubbliche, che registravano carenze di personale a causa dei ripetuti tagli alla Sanità. Ma un paziente come mio marito non può essere affidato a un infermiere appena uscito dall’Università, che non ha mai visto un malato di SLA”.

Michela è un’insegnante precaria, o meglio lo era, perché, quando Giovanni si è ammalato, prima ha ridotto le ore di lavoro e poi ha preso un congedo. “Ci sono solo io. In famiglia siamo soltanto noi due”, spiega la donna. “I nostri genitori sono anziani e, a loro volta, bisognosi di cure”. All’inizio dello scorso anno scolastico però, complice l’avvio della didattica a distanza e l’incoraggiamento della psicologa che la segue, Michela ha deciso di ricominciare a insegnare per alcune ore al giorno, nel tentativo di riprendere in mano la propria vita personale, per non farsi schiacciare dal carico fisico, emotivo e psicologico che l’assistenza a Giovanni inevitabilmente comporta. “Un paziente con SLA allo stadio avanzato necessita di assistenza H24, ma le ore concesse sono nulla rispetto all’effettivo bisogno”, sottolinea Michela. “Inoltre, mi sono resa conto che senza la mia presenza mio marito, in più di un’occasione, avrebbe rischiato la vita. Ci vengono affidati infermieri inesperti, che non sono neppure in grado di utilizzare l’AMBU, un dispositivo che permette di effettuare la ventilazione del paziente a livello manuale, indispensabile per i malati di SLA. Più di una volta ho dovuto interrompere la lezione e correre in soccorso di mio marito. Risultato? Alla fine ho lasciato di nuovo la scuola. Avere a che fare con personale senza competenze specifiche è semplicemente devastante. Si parla tanto di dignità dei pazienti, che poi, però, all’atto pratico vengono lasciati a sé stessi, insieme alle loro famiglie”.

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