Dr.ssa Sabrina Ravaglia, Responsabile Centro Malattie Neuromuscolari dell’Adulto, Istituto Neurologico Nazionale Fondazione IRCCS Mondino, Pavia

Intervista alla Dr.ssa Sabrina Ravaglia, Responsabile Centro Malattie Neuromuscolari dell’Adulto, Istituto Neurologico Nazionale Fondazione IRCCS Mondino, Pavia

La malattia di Pompe è una patologia metabolica rara, a trasmissione autosomica recessiva, causata dalla mutazione del gene che codifica per la alfa-glucosidasi acida (GAA), un enzima che serve a idrolizzare il glicogeno all’interno dei lisosomi. Quindi, in sostanza, è sia una malattia da accumulo lisosomiale, sia una glicogenosi (perché il substrato accumulato è, appunto, il glicogeno). Anche se il glicogeno si accumula nei lisosomi di diversi tessuti, le manifestazioni cliniche sono principalmente a carico del muscolo, quindi sostanzialmente è una miopatia, con coinvolgimento prevalentemente dei muscoli prossimali e assiali, incluso il diaframma.

"A seconda dell’attività enzimatica residua- spiega la Dr.ssa Sabrina Ravaglia, Responsabile Centro Malattie Neuromuscolari dell’Adulto, Istituto Neurologico Nazionale Fondazione IRCCS Mondino, Paviasi distinguono due forme. La più grave è la forma infantile, in cui il deficit enzimatico è completo o quasi completo, e che esordisce nei primi tre mesi di vita con una miopatia grave, che coinvolge anche il cuore; in assenza di trattamento, la mortalità è del 100% entro il secondo anno di vita (anzi, solitamente già entro il primo anno).
L’altra forma è quella a esordio tardivo, caratterizzata da un deficit enzimatico meno severo, e quindi da un fenotipo meno grave, senza coinvolgimento cardiaco. Clinicamente è caratterizzata da un progressivo indebolimento muscolare che coinvolge prevalentemente i cingoli e la muscolatura assiale, e anche la muscolatura respiratoria (in particolar modo il diaframma). L’aspettativa di vita risulta ridotta, proprio a causa della compromissione respiratoria. L’età d’esordio della forma tardiva è molto variabile, più spesso tra i 20 e i 40 anni, ma può esordire anche nell’infanzia o in età tardo-adulta: generalmente, più precoce è l’esordio, più il decorso è aggressivo, e la prognosi peggiore. La frequenza della malattia di Pompe è di circa un caso su 20.000 individui e la forma adulta è nettamente più frequente rispetto alla forma infantile (l'80% contro il 20%)”.

Come avviene la diagnosi di malattia di Pompe?

“Trattandosi di una malattia rara, la diagnosi è spesso tardiva, in parte per la scarsa conoscenza della malattia anche da parte degli stessi medici. Si calcola che il ritardo diagnostico medio, nella forma adulta, sia di 6-8 anni, un ritardo che non è più accettabile, ora che è disponibile una terapia. Tra l’altro la diagnosi è piuttosto facile: una volta che c’è il sospetto clinico (basato sul complesso di sintomi e segni), si procede alla misurazione dei livelli plasmatici di creatina fosfochinasi (CPK), che indicano la presenza di un danno muscolare, successivamente alla conferma diagnostica attraverso il dosaggio dell’enzima deficitario, e infine alla ricerca della mutazione del gene per l’alfa-glucosidasi. Il dosaggio enzimatico oggi è una metodica piuttosto semplice, perché può essere eseguito anche su una goccia di sangue fatta essiccare su carta assorbente (dried blood spot), quindi senza particolari accorgimenti di conservazione del campione.

Nella forma infantile, in considerazione delle manifestazioni cliniche così eclatanti, la diagnosi è generalmente precoce, e lo era, tutto sommato, anche prima dell’avvento dei programmi di screening neonatale. Al contrario, nell’adulto, la diagnosi può risultare particolarmente tardiva per una serie di ragioni: le manifestazioni sono più subdole e più difficili da intercettare; spesso i pazienti si autolimitano nelle loro attività e assumono uno stile di vita sedentario, per cui le difficoltà motorie possono passare a lungo inosservate; oppure ci possono essere comorbilità che vengono ritenute responsabili del quadro clinico, e quindi non si indaga ulteriormente. Nella storia di questi pazienti c’è un lungo peregrinare tra diversi specialisti (ortopedici, reumatologi, fisiatri, ma anche psichiatri) prima di arrivare alla diagnosi”.

Quali sono le terapie oggi disponibili per le persone con malattia di Pompe?

“La malattia di Pompe è stata la prima malattia muscolare per cui si è resa disponibile, dal 2006, una terapia specifica, la terapia enzimatica sostitutiva (ERT), che consiste nel somministrare per via endovenosa l’enzima deficitario, cioè una alfa-glucosidasi ricombinante, al fine di ottenere la riduzione dell’accumulo intramuscolare del substrato, ovvero del glicogeno. L’effetto sulla forma infantile è eclatante, ed è stato evidente sin dai primi trial: ora, infatti, le forme infantili non solo sopravvivono oltre il secondo anno di vita, ma raggiungono anche l’età adulta. Questo ha portato, purtroppo, all’emergere di un nuovo fenotipo, con compromissione a carico del sistema nervoso centrale, che emerge nel corso della tarda adolescenza o dell'età adulta ed è legato al mancato accesso della terapia enzimatica al sistema nervoso centrale.

Ora, dopo vent'anni di esperienza, possiamo dire che questa terapia ha modificato la storia naturale della malattia anche nella forma adulta, prolungando la sopravvivenza dei pazienti e rallentando la progressione della malattia. È auspicabile che venga somministrata in fasi precoci di malattia, perché in tal modo ha un miglior accesso al lisosoma, e inoltre perché sappiamo che il muscolo è un tessuto che ha scarse capacità rigenerative, per cui bisogna agire prima che intervengano degenerazioni muscolari irreversibili”.

Oggi abbiamo a disposizione due nuove terapie enzimatiche di nuova generazione, che si propongono un migliore accesso al tessuto target, ovvero al muscolo. La prima è la terapia enzimatica sostitutiva avalglucosidasi alfa, disponibile in Italia già dal gennaio 2024.

Alla fine del 2024 è stato approvato anche in Italia il nuovo approccio terapeutico 'chimerico', che si compone di due prodotti: l’enzima sostitutivo (la cipaglucosidasi alfa) e una molecola chaperone (il miglustat) che serve a prolungare l’emivita plasmatica del farmaco garantendo maggior stabilità dei livelli ematici. Quindi, attualmente, abbiamo in commercio tre terapie, di cui due di nuova generazione. Per tutte e tre è possibile organizzare l’infusione domiciliare, quindi con minori difficoltà da parte del paziente o dei caregiver”.

Quanto è importante l’arrivo di nuove terapie e quali saranno i vantaggi per i pazienti?

“Per prima cosa è importante ricordare che, a meno di vent'anni di distanza dalla prima terapia enzimatica, ci siano già due nuove terapie disponibili, che hanno tentato di migliorare l’efficacia e superare i limiti della prima (i cosiddetti unmet needs terapeutici). Questo è particolarmente sorprendente, trattandosi di una patologia rara in cui i trial clinici spesso vengono abbandonati dalle aziende stesse, per via delle difficoltà di mercato, oltre che delle difficoltà a condurre trial in queste patologie rare, con presentazione clinica eterogenea e con outcome difficili da misurare in modo obiettivo.

La ERT tradizionale aveva alcuni limiti che si sta tentando di superare: lo scarso accesso al tessuto target (il muscolo, che tra l’altro rappresenta il 40% del peso corporeo, motivo per cui servono dosi elevate di enzima sostitutivo per raggiungerlo), cui arriva solo una piccola proporzione dell’enzima somministrato, a scapito di altri tessuti – per esempio il fegato – che ne determinano un’inutile clearance (difficoltà di smaltimento, N.d.R.); l’emivita breve dopo la somministrazione endovenosa; il mancato accesso dell’enzima al sistema nervoso centrale, legato alle dimensioni dell’enzima e al mancato passaggio della barriera emato-encefalica, e che rappresenta un problema per le forme infantili (che ora sopravvivono in età adulta); la tendenza a perdere di efficacia dopo 3-5 anni; la scarsa efficacia sulla muscolatura diaframmatica; la scarsa efficacia in fasi avanzate di malattia, specie quando intervengono processi secondari come l’autofagia”.

Avere dei nuovi approcci terapeutici a disposizione è dunque fondamentale.

“Per quanto abbiamo potuto osservare, sembra che le nuove terapie funzionino meglio della ERT di vecchia generazione, per cui probabilmente almeno alcuni limiti sono stati superati. L’aspetto più rilevante è che si sta tentando di seguire altre strategie terapeutiche, alternative alla sostituzione enzimatica. I nuovi approcci prevedono per esempio la somministrazione di ERT intratecale o in combinazione a peptidi che ne consentano l’accesso al sistema nervoso centrale; l’utilizzo di sostanze che riducano la sintesi di substrato (per esempio l’inibizione della glicogeno sintasi); la terapia genica, per la quale diversi trial sono già in corso.

Auspicabilmente sarà possibile anche utilizzare in combinazione, e con effetto sinergico, terapie con diversi meccanismi d’azione, o individualizzare il trattamento a seconda delle condizioni del paziente, o agire anche in fase pre-sintomatica con terapie di prevenzione (per esempio quelle volte all’inibizione della sintesi del substrato)”.

Il Centro Malattie Neuromuscolari dell’Adulto, Istituto Neurologico Nazionale Fondazione IRCCS Mondino, Pavia

“Nel nostro Centro Neuromuscolare abbiamo in carico pazienti con distrofia muscolare facio-scapolo-omerale – FSHD, distrofie di Duchenne e di Becker, distrofie miotoniche e malattia di Pompe. Attualmente afferiscono al Centro 15 pazienti adulti con malattia di Pompe, che vediamo con cadenza semestrale o annuale, a seconda del quadro clinico e della rapidità di progressione. Le persone con malattia di Pompe devono essere sottoposte a una serie di valutazioni cliniche e funzionali 'di follow up' in modo costante. Collaboriamo con specialisti di diverse branche per una presa in carico multidisciplinare, che prevede il coinvolgimento, oltre che del neurologo, di pneumologi, genetisti, nutrizionisti, fisiatri, fisioterapisti e logopedisti.

La maggior parte di questi pazienti è in terapia enzimatica; alla luce della disponibilità di più terapie, diventa ora particolarmente importante monitorarli con scale cliniche e funzionali il più possibile obiettive e precise, per capire l’efficacia dei trattamenti e per intercettare eventuali peggioramenti. Si sta valutando la possibilità di definire se si possano utilizzare biomarcatori, e di che tipo.

Alcuni pazienti sono seguiti dal Centro ma non sono in terapia, perché diagnosticati in fase preclinica nel corso di indagini per rialzo di creatinchinasi (CK) o per sintomi aspecifici (mialgie, fatica): è importante monitorarli, per intercettare i primi segni di esordio della patologia e intervenire precocemente”.

Com’è la qualità di vita dei pazienti?

“Ovviamente dipende da diversi fattori, tra cui lo stadio di malattia, l’età del paziente, il supporto familiare e sociale. I pazienti essenzialmente hanno una compromissione motoria progressiva, che coinvolge inizialmente il cingolo inferiore e la muscolatura assiale, per cui i primi sintomi sono la difficoltà nella corsa, nel salire le scale, nel girarsi nel letto o nel rialzarsi dalla posizione sdraiata, fino ad arrivare alle difficoltà di deambulazione. La disfunzione respiratoria oggi è gestita in modo efficace con la ventilazione non invasiva.

L’età alla diagnosi può avere un ruolo nelle implicazioni sociali, familiari e lavorative, ed è particolarmente delicato, come sempre, il periodo di transizione verso l’età adulta. La terapia enzimatica comporta un'infusione endovenosa ogni 15 giorni, che dura circa 4-5 ore, ma che ora (a partire dal 2021, in seguito all’emergenza COVID) può essere eseguita anche a domicilio, quindi con minor impatto sulle attività del paziente e anche del caregiver”.

 

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