prof.ssa Wilma Barcellini

La prof.ssa Wilma Barcellini (Milano): “Oltre al supporto trasfusionale e alla splenectomia, stanno attualmente prendendo piede gli attivatori della piruvato chinasi”

I livelli di emoglobina possono crollare fino a 6 g/dL, mentre quelli di ferritina e bilirubina subiscono un netto rialzo: sono alcuni segnali ematochimici di un’anemia emolitica cronica che, nel deficit di piruvato chinasi (deficit di PK), finisce spesso per richiedere un supporto trasfusionale. Dal momento che quello dei disturbi enzimatici del globulo rosso è un corposo gruppo di malattie, non è mai facile risalire all’origine dell’anemia e dell’emolisi: pertanto, lo speciale algoritmo recentemente realizzato da Fondazione For Anemia e SITE costituisce un solido supporto alla diagnosi del deficit di PK. Una volta identificata la patologia occorre poi iniziare la terapia che, per questa come per altre condizioni affini, rimane sostanzialmente sintomatica.

TERAPIA TRASFUSIONALE

“Tra gli approcci terapeutici standard per i pazienti anemici la prima scelta ricade quasi sempre sul supporto trasfusionale”, spiega la prof.ssa Wilma Barcellini, Responsabile dell’U.O.S. di Fisiopatologia delle Anemie presso la Fondazione IRCCS Ca’ Granda-Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. “Generalmente, il ricorso a questa procedura si stabilisce sulla base della sintomatologia piuttosto che del livello di emoglobina, in quanto è noto come, a parità di livello di emoglobina, il paziente con deficit di PK sopporti meglio l’anemia rispetto alle persone con talassemia o con altri tipi di patologie”. In un articolo pubblicato sulla rivista Blood e dedicato alla gestione della terapia negli individui con deficit di PK emerge la netta differenza tra il paziente pediatrico e quello adulto nel ricorso alla terapia trasfusionale: nel primo la scelta della procedura è più comune (l’87% dei pazienti al di sotto dei 18 anni ha ricevuto almeno un’emotrasfusione nel corso della vita) mentre nel secondo la necessità di trasfusioni tende a diminuire con l’età.

In molti casi il supporto trasfusionale prosegue per tutta la vita e ciò crea delle complicanze legate al sovraccarico di ferro, aspetto che impone il ricorso a una terapia ferro-chelante. “Non tutti i pazienti sono trasfusione-dipendenti”, prosegue Barcellini. “Alcuni hanno bisogno del trattamento solo occasionalmente, in periodi della vita caratterizzati da maggior richiesta metabolica, come durante un’infezione virale o nel corso di una gravidanza o, ancora, nei primi anni di vita e in età avanzata quando, pur non essendo anemici, molti pazienti diventano sintomatici perché sviluppano altre comorbilità”. In un quadro così vario non mancano, infine, quegli adulti che presentano una leggera anemia e non necessitano affatto di trasfusioni.

Come accade per altre anemie emolitiche, e per le condizioni di marcato stress eritropoietico, nei pazienti con deficit di PK è raccomandata l’esecuzione di periodici controlli per verificare l’eventuale carenza di vitamina B12 o di altri elementi fondamentali per la vita del globulo rosso. Inoltre, si raccomanda la supplementazione con acido folico.

SPLENECTOMIA

Una terapia da sempre suggerita per il deficit di PK è la splenectomia [rimozione della milza, N.d.R.]”, aggiunge ancora Barcellini, autrice di numerose pubblicazioni sulla gestione del deficit di PK, fra cui un articolo pubblicato sulle pagine del British Journal of Haematology insieme alla dott.ssa Rachel F. Grace, del Boston Children’s Cancer and Blood Disorders Center di Boston. “L’emolisi, ossia la distruzione dei globuli rossi, avviene nella milza, pertanto la splenectomia è consigliata nei bambini con anemia severa che ricevono frequenti trasfusioni, ma solo dopo i 5-6 anni di età e idealmente durante l’adolescenza, per non compromettere l’accrescimento. Purtroppo, rispetto ad altre forme di anemia emolitica congenita (ad esempio la sferocitosi ereditaria), nel deficit di PK la splenectomia conduce a un minor aumento del livello di emoglobina; inoltre, si tratta di un intervento chirurgico associato a un certo rischio infettivo e trombotico”. Spesso insieme alla milza viene rimossa anche la colecisti, dal momento che molti pazienti con deficit di PK possono soffrire di calcolosi biliare.

ATTIVATORI DELLA PIRUVATO CHINASI

“Nell’ambito del deficit di PK, un fronte terapeutico relativamente nuovo è quello costituito dai cosiddetti farmaci attivatori dell’enzima piruvato chinasi”, precisa l’immunologa milanese, che da oltre quarant’anni si dedica allo studio delle anemie emolitiche congenite e acquisite. “Il primo farmaco di questa categoria a essere studiato è stato mitapivat, approvato in Europa e negli Stati Uniti per il trattamento del deficit di PK negli adulti. La molecola si è rivelata capace di suscitare un marcato aumento dei livelli di emoglobina (fino a 5 g/dL) nel 40% dei pazienti, mantenendo una risposta duratura nel tempo. Per le persone con un livello intermedio di anemia, passare da 9 a 14 g/dL di emoglobina fa la differenza”.

Purtroppo, esiste una popolazione di pazienti che non trae beneficio dalla splenectomia e non risponde alla terapia farmacologica con mitapivat: questi, spesso, soffrono di una grave anemia fin da piccoli e dovrebbero essere identificati in fretta. “La diagnosi del deficit di PK, però, non è semplice perché le malattia è molto rara e sono molteplici le mutazioni che la innescano”, precisa Barcellini. “In ogni caso, la risposta alla terapia con gli attivatori della piruvato chinasi è solitamente rapida, perciò il suggerimento è di provarla comunque e valutare nel tempo gli eventuali effetti”.

I dati sull’efficacia clinica di mitapivat, pubblicati su The New England Journal of Medicine, e quelli relativi alla sua capacità di ridurre il bisogno di supporto trasfusionale nei pazienti adulti con deficit di PK, presentati su The Lancet Haematology, hanno accresciuto l’interesse per questo tipo di farmaco, anche se saranno i riscontri derivanti dal suo utilizzo nella pratica clinica a farne comprendere il reale impatto terapeutico.

TERAPIA GENICA

Per quanto riguarda il futuro, tra i trattamenti in via di sperimentazione per il deficit di PK c’è anche la terapia genica. “Un trial clinico di Fase I – precisa Barcellini – ha già arruolato due pazienti nei quali, dopo l’impiego del farmaco RP-L301, è stato possibile osservare un significativo incremento dei livelli di emoglobina senza che per ora siano stati riportati effetti indesiderati. Al momento, tuttavia, il trapianto di cellule staminali ematopoietiche rimane l’unica cura definitiva per le forme gravi e refrattarie di deficit di PK, ma questa procedura è accompagnata da mortalità e morbilità rilevanti. Per questo motivo – conclude l’esperta – l’impiego degli attivatori di piruvato chinasi e, potenzialmente, la terapia genica possono rappresentare un’efficace alternativa terapeutica per i pazienti affetti da questa malattia”.

 

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