Dottor Gian Luca Forni

Il dott. Gian Luca Forni (Genova): “Il problema è che questa malattia è poco conosciuta, e ciò rende ancor più complesso sospettarne la presenza e procedere con gli appropriati test diagnostici”

Come è logico supporre, il sintomo più frequente nella maggior parte delle malattie del sangue è l’anemia, la quale, nel momento in cui supera la soglia d’allarme, trova nella trasfusione il suo giusto trattamento d’urgenza. Tuttavia, l’anemia è spesso la manifestazione a valle di un problema più complesso: diverse patologie del sangue condividono questo sintomo e tra esse figura il deficit di piruvato chinasi (deficit di PK o PKD), considerato la causa più frequente di anemia emolitica cronica ereditaria non sferocitica.

Riconoscere e identificare correttamente il deficit di PK nel paziente anemico richiede al medico di procedere per esclusione, depennando tutte le possibili altre cause di anemia emolitica. “Il deficit di piruvato chinasi si presenta con manifestazioni fenotipiche estremamente variabili, dalle forme gravi, che fin dai primi mesi di vita richiedono la terapia trasfusionale, a quelle più lievi, di più difficile inquadramento”, afferma il dott. Gian Luca Forni, a capo del Centro di Microcitemia, Anemie Congenite e Dismetabolismo del Ferro presso l’Ospedale Galliera di Genova. “Infatti, oltre che in età pediatrica, non è infrequente diagnosticare questa patologia in pazienti adulti che possono avere forme meno severe, senza evidenti caratteristiche patognomoniche. Ad esempio, lo studio della morfologia del globulo rosso spesso indirizza il medico verso certe alterazioni della membrana, ma nel caso del deficit di PK non è d’aiuto”.

Bisogna allora concentrarsi sull’anamnesi e avviare un processo di esclusione di tutte le altre possibilità per dare corpo all’idea di trovarsi di fronte a questa patologia: a tal proposito, la Società Italiana Talassemie ed Emoglobinopatie (SITE), di cui Forni è stato presidente, ha contribuito alla stesura di un algoritmo diagnostico incentrato proprio sul deficit di PK, per supportare i medici nel raggiungimento di una diagnosi che altrimenti appare molto complessa.

Il primo campanello d’allarme è l’anemia, che può essere di grado variabile”, prosegue Forni. “Gli indici emolitici risultano positivi, anche se a volte non sono completamente espressi, ed è proprio quando non riescono a indirizzarci verso altre forme di patologia che si profila l’ipotesi del deficit di PK”. Accanto all’anemia, molti pazienti riportano un ingrossamento della milza (splenomegalia), un rialzo della bilirubina (iperbilirubinemia) e, in alcuni casi, un sovraccarico di ferro, ma la sintomatologia della malattia rimane alquanto sfumata, evidenziando soprattutto stanchezza, difficoltà respiratoria e dolore osseo. “Scartando una sferocitosi [una malattia della membrana dei globuli rossi, N.d.R.] o una stomatocitosi [una patologia che riguarda la forma dei globuli rossi, N.d.R.], diventa consequenziale pensare al deficit di PK anche in presenza di forme meno aggressive di anemia che si manifestano durante la seconda o terza decade di vita del paziente”, spiega Forni. “A questo punto, si possono effettuare le indagini diagnostiche di primo e secondo livello”.

Infatti, nel caso del deficit di PK, la conferma diagnostica si raggiunge con la determinazione dell’attività dell’enzima piruvato chinasi e con il supporto dei test molecolari per la ricerca delle mutazioni del gene PKLR, che hanno il vantaggio di un’estrema precisione. “La principale criticità – sottolinea Forni – sta proprio nel fatto che il deficit di PK è una condizione non molto conosciuta e questo rende ancora più complesso sospettarne la presenza e suggerire l’esecuzione degli appropriati test diagnostici. Questa è probabilmente una delle ragioni per cui la malattia è ancora molto sotto-diagnosticata”.

Nei casi di malattia in cui le manifestazioni sono meno eclatanti, può essere importante l’indicazione del medico laboratorista che, alla luce degli esami ematici, può invitare il paziente a rivolgersi a uno specialista delle patologie congenite del globulo rosso. Per questo motivo, è cruciale puntare sulla formazione di questa figura professionale, ma anche dei medici di medicina generale che, sulla base della presenza di alcuni sintomi, possono richiedere l’esecuzione di esami di approfondimento. “È fondamentale stabilire un percorso che comincia proprio con una robusta formazione sulla malattia per le categorie professionali coinvolte nella diagnosi”, rimarca il dottor Forni. “Quando un paziente si presenta dal medico di base con sintomi generici, quale astenia e debolezza, riconducibili ad uno stato anemico, il medico può prescrivere un approfondimento e se il laboratorista, analizzando i risultati dell’emocromo e degli indici di emolisi, intravede delle peculiarità che lo portano a escludere altre condizioni, può a sua volta suggerire al paziente una visita con un ematologo specializzato in patologie congenite del globulo rosso”.

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