Francesca Fumagalli

La dott.ssa Francesca Fumagalli (Milano): “Comprendere nei dettagli la malattia e la sua evoluzione è la strada per assistere al meglio i piccoli pazienti”

Alcune malattie rare, pur riconducibili a un’unica entità sul piano genetico e molecolare, presentano caratteristiche fenotipiche differenti, risultando in un continuum di sintomi che possono essere associati a diverse forme della stessa condizione. Tuttavia, tali varianti possono essere riportate all’interno di uno spettro con cui definire l’evoluzione della patologia sulla base di specifici parametri clinici, fra cui l’età di insorgenza. È questo il caso della leucodistrofia metacromatica (MLD), una malattia da accumulo lisosomiale provocata da un difetto nell’enzima arisolfatasi A, per via del quale si genera un accumulo di sostanze tossiche, dette sulfatidi, soprattutto a livello del sistema nervoso; infatti, la MLD è responsabile dell’alterazione della mielina che avvolge gli assoni neuronali e del successivo e inarrestabile processo di neurodegenerazione. 

In un articolo recentemente pubblicato sulla rivista Journal of Inherited Metabolic Disease, un’equipe di ricercatori italiani ha analizzato nel dettaglio le diverse forme di leucodistrofia metacromatica, realizzando uno studio su 45 pazienti: la malattia è stata confermata in tutti i soggetti coinvolti nell’indagine, attraverso test genetici per la ricerca delle mutazioni del gene ARSA, e i pazienti sono stati classificati in vari sottogruppi, sulla base della diversa età d’esordio dei sintomi. Questo studio clinico ha caratteristiche ibride, collocandosi all’incrocio tra un trial longitudinale retrospettivo e uno prospettico, poiché gli individui arruolati sono stati valutati in un arco di tempo di 17 anni, seguiti nel tempo con valutazioni cliniche e molteplici esami strumentali utili a studiare l’evolversi del danno causato dalla malattia a livello del sistema nervoso.

“I bambini affetti da leucodistrofia metacromatica appaiono del tutto sani alla nascita, ma man mano che crescono iniziano a presentare i segni della patologia, andando verso un progressivo peggioramento clinico. Più precocemente compare la malattia, peggiore sarà il suo decorso clinico”, spiega la dott.ssa Francesca Fumagalli, prima autrice dello studio, specialista in Neurologia presso l’Unità di Immuno-ematologia Pediatrica e l’Unità di Neurologia e Neurofisiologia dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la Terapia Genica (SR-TIGET), IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. “Perciò abbiamo classificato i pazienti in diversi gruppi: quelli a insorgenza tardo-infantile (sotto i 30 mesi di età) e quelli a insorgenza giovanile (2,5-16 anni), che possono essere ulteriormente suddivisi in pazienti a insorgenza giovanile precoce e tardo-giovanile. Infine, ci sono i pazienti adulti. Le forme tardo-infantili sono le più gravi: i pazienti presentano uno sviluppo normale nei primi mesi di vita, per poi perdere rapidamente le acquisizioni motorie e comunicative. In questi casi, la malattia porta alla morte nel giro di pochi anni. Le forme giovanili precoci esordiscono con disturbi motori, oppure con un’alterazione nel comportamento e nelle funzioni cognitive. Questi bambini in età scolare hanno difficoltà di attenzione e concentrazione, comportamento a volte aggressivo e difficoltà motorie. L’evoluzione della malattia è più lenta e la sopravvivenza più lunga ma, in mancanza di trattamento, si instaura una situazione di grave disabilità”. 

Meno di un anno fa, in Europa è stata approvata una terapia genica per la leucodistrofia metacromatica, indicata per le forme tardo-infantili e giovanili precoci in fase pre-sintomatica o sintomatica precoce. Pertanto, è essenziale poter riconoscere subito la malattia quando presente e, in tal caso, allargare la ricerca anche ai fratelli dei bimbi affetti, così da individuare altri potenziali candidati che possano beneficiare del trattamento. “Riconoscere le varianti della patologia ha valore non solo in termini di sintomatologia, ma anche in riferimento ai diversi esami strumentali, fra cui la risonanza magnetica, l’elettromiografia e la ricerca di varianti genetiche”, precisa Fumagalli. “Il loro corretto impiego ci consente, infatti, di predire l’evoluzione della malattia e di assistere il paziente nel modo migliore”. 

Questo studio si è dunque rivelato di fondamentale utilità ai fini di una sempre miglior comprensione della leucodistrofia metacromatica, esplorando la possibilità di ricorrere ad alcuni strumenti in grado di distinguerla in maniera più efficace da altre condizioni neurologiche (ad esempio certe forme di demenza) e di seguirne al meglio l’evoluzione clinica. I ricercatori hanno considerato diversi parametri per il monitoraggio della progressione di malattia, ricorrendo sia a modalità di valutazione cliniche, comprendenti il rilevamento degli indici di perdita della capacità di deambulazione indipendente e di controllo del tronco, la necessità di inserimento della PEG e la frequenza delle crisi comiziali, sia a di modalità di valutazione strumentali, come la risonanza magnetica dell’encefalo (ponendo l’attenzione sulla comparsa dei primi segni evidenti di coinvolgimento cerebellare) o lo studio della velocità di conduzione nervosa (elettromiografia), particolarmente compromessa nelle forme infantili tardive. In questo studio, inoltre, è stata introdotta per la prima volta l’esecuzione sistematica dei cosiddetti “potenziali evocati acustici”. “La misurazione dei potenziali evocati acustici è uno strumento di ampio uso nella pratica clinica, che offre un’idea delle capacità uditive dei pazienti”, aggiunge ancora la dott.ssa Fumagalli. “Tale esame ci fa capire come il segnale acustico raggiunga la corteccia cerebrale. Dal momento che la leucodistrofia metacromatica è una patologia che affligge la sostanza bianca, quando essa è presente il segnale è rallentato. Questo strumento ci dà la possibilità di capire presto se c’è un danno a livello cerebrale, ed è molto utile per inquadrare le forme precoci della patologia”. 

Il più immediato vantaggio di ricerche come questa consiste, infatti, in una più precisa distinzione tra le varie forme di malattia: i pazienti con leucodistrofia metacromatica tardo-infantile presentano caratteristiche più simili a quelli con malattia giovanile precoce, mentre quelli affetti da forme giovanili tardive assomigliano più a coloro che sviluppano la patologia in età adulta. Inoltre, i pazienti del gruppo tardo-infantile che raggiungono la capacità di camminare prima che la malattia si manifesti vanno incontro a una serie di disfunzioni neurologiche in età più avanzata rispetto agli altri, e questa differenza, sebbene anche solo di pochi mesi, potrebbe rivelarsi fondamentale per il ricorso a trattamenti come la terapia genica, che richiedono tempo per esplicare il loro effetto.

“L’idea di raccogliere in maniera estesa e progressiva un cospicuo volume di dati sulla leucodistrofia metacromatica ci ha fatto imparare quali variabili siano di maggior aiuto nel distinguere le diverse forme di patologia e predirne così l’evoluzione”, conclude Fumagalli. “Era fondamentale disporre di dati quantitativi per effettuare un confronto tra i pazienti trattati e valutare, così, se il danno presente in quelli che hanno ricevuto le terapie sperimentali fosse inferiore rispetto a coloro che non hanno potuto ricevere il trattamento. Inoltre, abbiamo acquisito grande competenza sulla gestione della leucodistrofia metacromatica, dal momento che l’aver potuto seguire in maniera così approfondita questi bambini ci ha permesso di alzare il livello di esperienza sulla malattia e le sue complicanze. In questo modo possiamo prenderci cura in maniera migliore dei nostri piccoli pazienti”.

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