Il prof. Francesco Emma: “Abbiamo riunito la più grande casistica di pazienti e abbiamo visto come il trattamento sia in grado di ritardare la progressione verso l’insufficienza renale”
All’interno della comunità medica, ottenere riscontri universalmente validi e accettati su una patologia che conta solo qualche migliaio di pazienti a livello mondiale non è facile. Se poi l’unica terapia approvata è stata introdotta in tempi relativamente recenti, fare considerazioni a lungo termine diviene pressoché impossibile. È questa la situazione in cui si trovano coloro che si occupano di cistinosi nefropatica, una malattia renale di tipo ereditario che nella sua forma infantile, fino a qualche decennio fa, limitava l’aspettativa di vita dei pazienti a pochi anni.
Per cercare di ottenere informazioni più dettagliate su patologie rare come questa occorre servirsi di indagini di carattere retrospettivo, come dimostra un recente studio internazionale pubblicato sulla rivista Kidney International e firmato, tra gli altri, dal prof. Francesco Emma, Responsabile della Divisione di Nefrologia e Dialisi e Direttore del Dipartimento di Pediatria Specialistica dell’IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. I dati dei pazienti con cistinosi nefropatica impiegati per l’indagine sono stati raccolti tra il 1970 e il 2017 in otto Paesi del continente europeo, più la Turchia, presso svariati grandi centri specializzati in questa patologia, e il massiccio lavoro di analisi condotto su di essi ha permesso di stabilire dei punti fermi di capillare rilevanza per la gestione dei pazienti.
“La terapia con cisteamina è stata introdotta per la prima volta solo alla fine degli anni Settanta e approvata dagli enti regolatori americani ed europei a metà degli anni Novanta, ma ha rivoluzionato il protocollo di cura per questa patologia”, afferma il prof. Emma. “Questo perché consente di ritardare l’arrivo dell’insufficienza renale. Purtroppo però, ad oggi, non possiamo ancora dire con certezza se essa sia davvero ritardata o se la terapia sia in grado di prevenirne l’insorgenza, perché i primi pazienti trattati sono ancora troppo giovani”. La cistinosi nefropatica, infatti, è contraddistinta dall’accumulo di cistina all’interno dei lisosomi: nella forma infantile, tale accumulo riguarda tutte le cellule del corpo e pertanto, fino a cinquant’anni fa, quando la terapia con cisteamina non esisteva, l’aspettativa di vita dei bambini affetti dalla patologia non andava oltre i 10 anni, a causa dello sviluppo di una grave insufficienza renale che li portava alla morte.
L’introduzione del trattamento a base di cisteamina e il miglioramento delle tecniche di trapianto renale in pediatria hanno permesso di superare questo limite, tanto che oggi i pazienti possono arrivare a vivere anche oltre i 50 anni, e nel contempo hanno permesso di capire che la cistinosi nefropatica non è solo una malattia del rene ma riguarda tutto l’organismo: se non adeguatamente trattata, può associarsi allo sviluppo di altre patologie, come diabete, ipotiroidismo, sindrome di Fanconi, gravi problemi di crescita e forme di miopatie che cominciano a livello delle estremità e proseguono poi centralmente, suscitando gravi difficoltà respiratorie.
“Con questo studio, abbiamo cercato di stimare l’impatto della terapia con cisteamina sulla malattia e lo abbiamo quantificato tramite analisi dettagliate condotte sulla più grande casistica di pazienti mai ottenuta per la cistinosi nefropatica”, prosegue Emma. “L’elemento di maggior valore della nostra ricerca è che non esiste alcun effetto soglia in termini di inizio della terapia: ciò significa che non c’è un’età critica oltre cui il risultato del trattamento è meno buono, o al di sotto della quale risulta migliore. In generale, ogni mese di ritardo nell’inizio della terapia con cisteamina si traduce in una più rapida progressione verso l’insufficienza renale [il dosaggio della creatinina ematica è stato usato per valutare la funzione renale, N.d.R.] e ciò depone nettamente a favore dell’inserimento della cistinosi nefropatica in un progetto di screening neonatale o, perlomeno, deve stimolare la creazione di un programma per la diagnosi rapida della patologia”. Dalla ricerca, inoltre, è emerso che il trattamento con cisteamina è in grado di incidere anche sulla crescita dei pazienti, i quali, se sottoposti precocemente alla terapia, nonostante le limitazioni imposte dalla patologia, crescono meglio.
Per quanto riguarda la diagnosi di cistinosi nefropatica, tra gli strumenti utili c’è anche il test genetico e i molti dati raccolti nello studio (dei 453 pazienti inclusi, 329 disponevano di informazioni relative anche al profilo genetico) hanno consentito di svolgere un’analisi dettagliata a riguardo. “Nel Nord-Europa la malattia è scatenata sostanzialmente da delezioni a carico dei geni CTNS, CARKL e TRPV1, contigui a quello della cistinosina”, spiega il prof. Emma. “Sebbene precedenti studi avessero sostenuto che tali pazienti andavano incontro a una condizione più severa, abbiamo potuto osservare che la delezione non conferisce un carattere di gravità maggiore alla patologia. Al di là del tipo di mutazione, tutti gli individui affetti da cistinosi nefropatica affrontano le medesime dinamiche di malattia”.
“Infine, lo studio ha evidenziato i benefici del dosaggio della cistina intraleucocitaria quale prezioso strumento per il monitoraggio dei pazienti”, conclude Emma. “Si tratta di un test molto particolare, che pochi laboratori al mondo hanno in elenco tra quelli a disposizione [in Italia lo si può richiedere all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, N.d.R.] e che risulta di difficile esecuzione, ma è in grado di dare preziose indicazioni per il monitoraggio della terapia, fornendo al medico un’idea della risposta del paziente alla stessa”.
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