In circa la metà dei pazienti, l'esame citologico 'standard' non permette di identificare con certezza questa forma tumorale
Un ritardo nella diagnosi di un tumore come il carcinoma midollare della tiroide (CMT) può avere conseguenze importanti e anche drammatiche. Ne sa qualcosa la donna livornese che, dalle pagine del quotidiano Il Corriere della Sera, racconta la storia di una logorante attesa, durata quattro anni, prima di sentirsi confermare l’infausta diagnosi. Quattro anni durante i quali il nodulo che aveva percepito a livello della tiroide è cresciuto ed è stato poi trattato con innumerevoli interventi chirurgici e terapie. Il calvario della donna è stato particolarmente faticoso perché questo tumore ha prodotto metastasi e ha più volte recidivato, ma l’aspetto più sconvolgente è che esso non è stato riconosciuto dal medico curante che, secondo quanto riportato nell’articolo, si è reso colpevole di aver sottovalutato la situazione della paziente, bollandola semplicemente come ipocondriaca.
Al di fuori della specifica situazione, dove le colpe del medico in questione non sono trascurabili, c’è un aspetto che va valutato con attenzione in merito alle difficoltà diagnostiche di quella che è una rara forma tumorale della tiroide. Il carcinoma midollare della tiroide, infatti, è un carcinoma neuroendocrino che origina dalle cellule C parafollicolari e che rappresenta approssimativamente il 5% di tutti i tumori tiroidei, anche se il dato potrebbe essere sottostimato proprio a causa della difficoltà di individuare precocemente la malattia. A fronte di questa relativa rarità, tuttavia, il carcinoma midollare è responsabile di circa il 10% di tutti i decessi riconducibili a tumori tiroidei. Un tale livello di aggressività impone opzioni terapeutiche radicali: nelle forme più gravi di CMT, le Linee Guida pubblicate nel 2015 dall’American Thyroid Association (ATA) raccomandano, oltre alla tiroidectomia, anche la dissezione bilaterale dei linfonodi, una procedura molto pesante per il paziente.
In un simile contesto, risulta di estremo interesse il lavoro recentemente pubblicato sulla rivista Minerva Endocrinologica dal dott. Pierpaolo Trimboli, del Centro Diagnosi e Terapia della Malattie Tiroidee dell’Istituto Oncologico della Svizzera Italiana diretto dal Prof. Luca Giovanella, nel quale si esaminano le principali novità sulla diagnosi del carcinoma midollare. “Quando viene diagnosticato con ritardo, il carcinoma midollare della tiroide è già un tumore aggressivo”, spiega il dott. Trimboli. “Mentre il gold standard per la diagnosi di tutti gli altri tumori della tiroide, come quello di tipo papillare, il più frequente nella tiroide, è l’agoaspirato per l'esame citologico, nel caso del carcinoma midollare tale strumento è molto meno efficace e identifica correttamente il tumore solo nella metà dei casi”. Infatti, come dimostrato in una meta-analisi apparsa su Clinical Endocrinology e firmata dallo stesso dott. Trimboli, solo il 56% di tutti i carcinomi midollari della tiroide è stato riscontrato con la semplice valutazione citologica. Questo dato è particolarmente preoccupante in relazione all'aspetto della formazione dei clinici, che di fronte ad un esame citologico negativo difficilmente opterebbero per qualcosa di diverso da un follow-up ecografico, lasciando dunque al tumore tutto il tempo di crescere e svilupparsi in malignità. A questo va aggiunto che il CMT si presenta con quadri ecografici che non sono gli stessi delle altre neoplasie tiroidee. “Il quadro ecografico del carcinoma midollare della tiroide non è lo stesso di quello del papillare, a cui è riferita la gran parte della letteratura scientifica tiroidea. Per tale ragione, l’accuratezza dell’ecografia in questo ambito è da considerarsi nettamente inferiore a quella attesa. Questo deve essere un motivo per cercare nuovi ausili in fase diagnostica”.
“La differenza rispetto agli altri tumori della tiroide è che il carcinoma midollare è composto da cellule che non sono proprie della tiroide”, prosegue Trimboli. “Le cellule C, infatti, non partecipano alla funzionalità della ghiandola ma producono un ormone, la calcitonina, che svolge altre azioni. Per questo motivo, la calcitonina è considerata una vero e proprio marcatore ematico del carcinoma midollare: valori elevati di questo ormone nel sangue identificano, infatti, la presenza del tumore”. Tuttavia, il suo utilizzo non è così semplice e immediato come si potrebbe immaginare, dato che per poter impiegare la calcitonina all’interno di un programma di screening per il CMT è necessaria una rigorosa valutazione del rapporto costo-beneficio, valutazione ad oggi ostacolata dall’impossibilità di stabilire livelli soglia dell'ormone associati ad elevati criteri di sensibilità e specificità diagnostica.
Questo aspetto rende prudenziale la presa di posizione dell’ATA, che, non essendo né favorevole né contraria al dosaggio della calcitonina nei soggetti con noduli tiroidei, obbliga i ricercatori ad elaborare percorsi personalizzati per individuare il CMT in maniera precoce. “Sulla base delle esperienze di uno studio giapponese e di uno studio dell’Università di Cagliari, dove veniva suggerito il dosaggio della calcitonina nel materiale aspirato con ago da un nodulo, ci siamo orientati su un sistema che riunisca i pregi dell’agoaspirato e della calcitonina ematica”, spiega Trimboli. “Quando rileviamo valori di calcitonina ematica borderline (n.d.r. un po’ più alti rispetto alla norma ma non chiaramente diagnostici) e abbiamo il sospetto di trovarci di fronte a un carcinoma midollare della tiroide, eseguiamo l’agoaspirato e, dopo aver preparato i vetrini per l’esame citologico, sciacquiamo l’ago utilizzato in una provetta contenente 1 mL di soluzione fisiologica e inviamo il tutto al laboratorio, che eseguirà un dosaggio di calcitonina: in caso di presenza di calcitonina siamo quasi certi che si tratti di un carcinoma midollare”. Il vantaggio di questa procedura è che può essere eseguita in tutti i centri del mondo senza costi eccessivi, perché si tratta di un semplice dosaggio di calcitonina effettuato su una matrice diversa da quella ematica. Il test, soprattutto, offre un livello di certezza diagnostica praticamente assoluto, perché il riscontro di calcitonina è di per sé indice della presenza di questo peculiare tipo tumorale. “È il trait d’union tra l’analisi citologica e quella prodotta in medicina di laboratorio”, continua Trimboli, che spiega l'ottimale svolgimento della procedura. “Per identificare il carcinoma midollare della tiroide occorre innanzitutto dosare la calcitonina ematica in tutti i pazienti sottoposti a biopsia tiroidea. Nei soggetti in cui il livello osservato fosse sospetto, si procede poi a verificare l’eventuale presenza dell'ormone su agoaspirato”.
A supporto di una diagnosi precoce del carcinoma midollare tiroideo c’è l’ancor più recente ipotesi di lavoro che considera il ruolo della pro-calcitonina, un precursore della calcitonina. Un'ipotesi che ha trovato ampio spazio in Medicina interna nell’inquadramento e monitoraggio della febbre di origine batterica e che, come specificato in uno studio apparso sulla rivista Endocrine-Related Cancer, è ben gestibile in fase pre-analitica e prevede un’assoluta omogeneità nel metodo di dosaggio, consentendo un processo di standardizzazione tale da farne un marcatore appetibile. Infatti, in presenza di carcinoma midollare della tiroide, la pro-calcitonina è sempre dosabile e può essere impiegata a supporto della calcitonina.
Infine, non bisogna dimenticare che in un caso su quattro il carcinoma midollare della tiroide si associa ad una predisposizione genetica scatenata da mutazioni a carico del proto-oncogene RET. In persone con diagnosi di carcinoma midollare della tiroide è essenziale eseguire la ricerca della mutazione RET e, laddove essa sia verificata, estendere il test anche ai familiari di I grado del paziente allo scopo di identificare precocemente i possibili portatori della stessa anomalia genetica, che sono ad elevato rischio di sviluppo di CMT.
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