Simone

Simone e sua sorella sanno di aver ereditato la patologia dalla loro mamma, ma affrontano la sfida che li attende sorretti da uno speciale legame familiare

La malattia di Huntington è il banco di prova di un nugolo di emozioni e sentimenti, principalmente perché ha un forte impatto sulla vita delle persone che si trovano ad affrontarla. Simone è un ragazzo di 24 anni, estremamente sensibile e ricco di vitalità, che ha imparato a conoscere questa patologia da quando aveva poco più di 7 anni, vedendone le conseguenze su sua mamma. Il manifestarsi della malattia nella madre è stato difficile da accettare, e lo è stato ancora di più sapere che la sorella maggiore Maddalena - che lo ha praticamente cresciuto - è risultata positiva al test genetico presintomatico.

La malattia di Huntington è entrata a far parte della mia vita quando ero piccolo. Mia madre ha ricevuto la diagnosi nel 2002, quando io avevo solo 7 anni, ed è morta nel 2014”, spiega Simone. “Ovviamente, all’inizio non avevo compreso fino in fondo in cosa consistesse la sua patologia. Non capivo cosa stesse succedendo e cosa accadeva all’interno della mia famiglia. Mi dicevano che la mamma era malata e non entravano mai nel dettaglio. Tuttavia, con il passar degli anni, il continuo peggioramento dei suoi sintomi mi ha aperto gli occhi su tutto ciò che la Huntington comporta, per chi ne è affetto e per chi si prende cura della persona malata”.

Mia mamma era presente nella stanza insieme a me, ci parlavo ma sentivo che non mi ascoltava”, ricorda Simone. “Ho sofferto molto questa situazione, non solo dentro le mura di casa ma anche a scuola: ai colloqui non potevo mandare nessuno perché mio papà, seppur sommerso di lavoro, trascorreva tutto il tempo a casa ad assistere la mamma. Questa situazione mi turbava. Mi è mancato il fatto di avere una figura di genitore che si prendesse cura di me: di solito sono i genitori che si prendono cura dei figli ma a noi è capitato il contrario, e mi domandavo perché questa cosa fosse accaduta alla nostra famiglia. Mi pesava molto il fatto che mia madre fosse malinconica nonostante ci fossimo noi figli ad accudirla e a sostenerla. Fino ai 40 anni era stata una donna attiva e solare. A casa faceva tutto lei. Poi è arrivata la malattia e lei si è spenta. Era sempre sconfortata e giù di morale”.

Crescendo mi sono molto confrontato con mia sorella e mio fratello e ho capito che dovevamo lavorare in squadra”, prosegue Simone. “Il risvolto positivo di questa condizione - se così si può dire - è che mi sono ritrovato a vivere in una famiglia ancora più unita di quanto già eravamo. Tanto che, per certi versi, mia sorella Maddalena è stata come una madre per me. Lentamente ho capito cosa comportasse la malattia di Huntington, perciò ho trovato la forza di condividerla con gli amici e con i professori e il preside del Liceo, perché volevo che sapessero che cosa stava vivendo la nostra famiglia. Quando ho acquisito la maturità che mi ha permesso di capire fino in fondo la situazione, non ho avuto timore di nascondere la patologia. Affrontare tutti i giorni le problematiche che la malattia di Huntington comporta ti porta a crescere molto velocemente ma, specie all’inizio, mi è mancato conoscere cosa fosse questa condizione e come assistere le persone che ne sono affette. A casa facevo quello che mi dicevano, aiutando l’assistente sanitaria a spostare mia madre, facendola alzare dal letto e sostenendola mentre scendeva le scale, a cambiarla e a darle da mangiare, ma nessuno mi ha mai spiegato come farlo e questo, per molto tempo, mi ha fatto sentire impotente. Forse è per tale ragione che ho scelto di studiare infermieristica, anche se dopo due anni ho mollato”.

Una volta maggiorenne ho cominciato a riflettere sulla possibilità di sottopormi al test genetico presintomatico”, spiega Simone. “Per circa quattro anni ho espresso la volontà di farlo ma poi ho sempre rimandato, perché non mi sentivo pronto. Medici e psicologi mi hanno seguito durante tutti i momenti, sia prima che dopo, rispondendo a ogni mia domanda, e mi hanno anche spiegato che potevo farlo ma non ritirare l’esito. La decisione di sapere spettava completamente a me. Alla fine, l’11 settembre di tre anni fa ho ritirato l’esito del test, perché sentivo che non riuscivo a resistere all’idea di non sapere se, un domani, avrei dovuto affrontare questa malattia: in un futuro incerto, il test era l’unica cosa che mi poteva dare certezza. Nei giorni precedenti non riuscivo a pensare a niente. A casa mi chiedevano se fossi agitato o preoccupato, ma io non sentivo nulla, volevo solo ritirare l’esito il più in fretta possibile. La notte del 10 settembre ho sognato che il risultato del test fosse negativo ma, quando il giorno dopo ho ritirato e aperto la busta, l’esito era positivo. Ciò significava che tutto quello che avevo vissuto con mia madre sarebbe ricominciato da capo, ma stavolta la persona da assistere sarei stato io. Credo sia anche per questo che ho interrotto gli studi per diventare infermiere: perché ogni volta che mettevo piede in reparto mi sentivo a disagio, come se vivessi su di me le malattie dei pazienti e mi vedessi ricoverato in ospedale in futuro. Ne ho parlato con lo psicologo e per ora ho deciso di lasciare in sospeso questo percorso. Ho pianto molto il giorno che ho ritirato l’esito e anche nei successivi, ma poi mio padre, che è sempre stato e continua ad essere un uomo di grande forza, mi ha detto che piangere non serve a nulla, che mi sarei dovuto rimboccare le maniche e andare avanti, perché nella vita si cade e ci si rialza Mi disse che non avrei dovuto permettere alla malattia di decidere il mio futuro, perché quello appartiene a me soltanto”.

Anche mia sorella è risultata positiva al test e questo ha contribuito a unirci ancora di più, rinforzando il nostro legame”, sottolinea Simone. “Di mia madre, anche se l’ho vissuta poco, conservo dei bellissimi ricordi, che mai cancellerò, ma mia sorella mi ha fatto da madre per tutta la vita, e io per lei ci sarò sempre. Abbiamo condiviso la malattia della mamma e un giorno dovremo condividerla tra di noi perciò bisogna andare avanti con forza e coraggio, combattendo insieme. Mia sorella si preoccupa e, con un sorriso amaro, inizia a contare gli anni, pensando di essere vicina al momento in cui la malattia si manifesterà, visto che ha compiuto da poco 34 anni e nostra madre si è ammalata a 40 anni. Fa male ed è triste pensare che chi mi ha cresciuto, tra qualche anno, potrebbe sviluppare gli stessi sintomi di mia madre ma non possiamo permetterci di piangere ed essere a terra. Sono aggiornato sulle terapie in arrivo e ho visto che in 20 anni tante cose sono cambiate. Questo mi ha dato e continua a darmi una grande speranza. Seguo gli incontri dell’associazione AICH Roma OdV e questo mi dà forza. Dopo i giorni tristi della diagnosi ho trovato sollievo e pace, se così si può dire, perché la mia famiglia si è unita ancora di più e i miei veri amici mi sono stati sempre vicini, senza mai lasciarmi solo. Oggi spero nella ricerca e nella scienza, e vivo la mia vita come decido io, senza farmi troppo condizionare dalla malattia”.

Lo scorso 11 marzo, Simone è stato ospite della nona puntata di “#TheRAREside - Storie ai confini della rarità, il social talk organizzato da OMaR in occasione della Giornata Mondiale delle Malattie Rare 2021.

Guarda il video della NONA PUNTATA di #TheRAREside

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