Biomarcatori per il monitoraggio della terapia; strategie di trattamento; il ruolo dei pazienti nel processo di ricerca: queste le tematiche al centro del convegno

Sono tre i messaggi chiave emersi in occasione della 14° Conferenza Annuale sulla malattia di Huntington, organizzata dalla CHDI Foundation e svoltasi tra il 25 e il 28 Febbraio 2019 a Palm Springs in California. A spiegarne i dettagli è il prof. Ferdinando Squitieri, Responsabile dell’Unità Ricerca e Cura Huntington e Malattie Rare dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza/CSS-Mendel e Direttore Scientifico della Fondazione Lega Italiana Ricerca Huntington e malattie correlate (LIRH) Onlus.

BIOMARCATORI DI PROGRESSIONE

“Il primo punto sul quale vale la pena riflettere è che esiste la necessità di ricercare in maniera affidabile nuovi e significativi biomarcatori, preziosi soprattutto per il monitoraggio di terapie sperimentali”, afferma il prof. Squitieri. “In particolare, è stata sottolineata l’importanza di identificare biomarcatori di derivazione strutturale e funzionale, che si ottengono direttamente da analisi del sistema nervoso e dell’encefalo anche attraverso tecnologie innovative di risonanza magnetica avanzata”. Da un punto di vista patologico, la malattia di Huntington si contraddistingue per la perdita dei piccoli neuroni spinosi nel caudato e nel putamen, le strutture che formano lo striato, la parte più profonda del cervello. Ciò determina la peculiare coincidenza di sintomi motori, cognitivi, funzionali e comportamentali tipici della malattia. Tuttavia è stato osservato anche un danno a livello della corteccia fronto-temporale e della sostanza bianca, per cui i ricercatori stanno indagando attentamente l’alterazione delle connessioni cerebrali deputate ai processi di comunicazione tra le varie parti del cervello. “Ciò che sta emergendo è che, specie in fase pre-sintomatica, bisogna cercare biomarcatori delle alterazioni della sostanza bianca, la sostanza isolante posta intorno ai prolungamenti nevosi che permettono all’impulso di essere trasmesso da una parte all’altra dell’encefalo”, continua Squitieri. “In secondo luogo, è stato rilevato che la huntingtina aumenta di concentrazione nel liquor. Perciò, nelle future sperimentazioni sarà interessante sia studiare i livelli di proteina mutata nel liquor sia avere un’idea di come si modifichino nel sangue i neurofilamenti. Questi ultimi non sono altro che sostanze proteiche derivate da neuroni che degenerano. Sono, dunque, un indice di mortalità dei neuroni e sarà vantaggioso studiarli a partire da un prelievo di sangue periferico perché, insieme all’huntingtina, rappresentano ottimi indicatori della progressione della malattia nel tempo”.

NUOVE OPZIONI TERAPEUTICHE

“Il secondo messaggio lanciato durante il Convegno ruota intorno all’enorme sforzo che ricercatori e industria farmaceutica stanno compiendo per abbassare i livelli di huntingtina tossica”, continua Squitieri. “E questi sforzi sono legati in parte a farmaci antisenso, come quelli proposti da Roche e Wave Life Sciences e in parte ad altre nuove tecnologie”. Roche e Wave Life Sciences, infatti, stanno studiando l’efficacia di farmaci antisenso somministrabili attraverso una infiltrazione intratecale direttamente nel liquor allo scopo di ridurre i livelli di huntingtina. Il farmaco di Roche lo fa in maniera non selettiva, cioè abbassando i livelli sia di huntingtina tossica che di quella normale, ereditata dal genitore sano. Quello di Wave Life Sciences concentrandosi prevalentemente su quella tossica.

“Oltre a ciò sono emerse altre tre strategie che non sono ancora in fase avanzata di sperimentazione clinica ma che risultano promettenti”, afferma Squitieri. “Una di queste è condotta da UniQure ed è una terapia genica in senso stretto perché sfrutta un vettore virale per veicolare un gene che codifica per un frammento di micro RNA (miRNA), il quale rappresenta una sonda complementare all’RNA dell’huntingtina a cui si lega in maniera specifica e selettiva, riducendone così i livelli. Questo approccio è stato testato su un modello suino dove si è visto che i livelli di huntingtina si sono ridotti fino al 70% e tale risultato si è mantenuto fino a un anno dalla somministrazione”. Ciò che dovrà essere ulteriormente e approfonditamente indagato sono gli eventuali effetti collaterali della terapia a lungo termine perché, anche in questo caso, vengono ridotti i livelli sia di proteina mutata che normale. Per questo l’azienda ha ricevuto l’approvazione da parte della FDA ad avviare la terapia sperimentale in uno studio di Fase I/IIa entro la fine del 2019.

“Una seconda terapia in sperimentazione, proposta da Voyager Therapeutics ha come obiettivo quello di impedire che il gene mutato produca la huntingtina agendo su questo con tecniche di editing ma di nuova generazione, evitando un taglio e, quindi, un maggior carico di effetti collaterali”, conclude l’esperto. “Infine, c’è l’approccio proposto da PTC Therapeutics che sta studiando la possibilità di non infondere farmaci nel liquor, ma di fornire ai pazienti una terapia per via orale o per infusione nel circolo ematico. Gli studi preliminari sul modello murino hanno messo in luce la possibilità di ridurre i livelli di huntingtina nell’encefalo fino all’80% con questa strategia. È una strategia preclinica interessante e non invasiva e dall’azienda hanno fatto sapere che sperano di arrivare a uno studio clinico di Fase I sull’uomo già a partire dal 2020”.

IL RUOLO DEI PAZIENTI

L’ultimo aspetto legato alla malattia sottolineato al Convegno di Palm Springs è legato al ruolo dei pazienti e alla profonda necessità di coinvolgerli in maniera attiva, favorendo la raccolta di informazioni che derivino proprio dai malati prima ancora che dai modelli di malattia. “Mi hanno molto colpito le parole di un relatore che affermava come in questo momento il bisogno della partecipazione dei pazienti agli studi clinici da parte dei ricercatori stia letteralmente esplodendo”, afferma Barbara D’Alessio, della Fondazione LIRH, unica organizzazione italiana rappresentativa dei pazienti presente al Convegno. Molto più che in passato i ricercatori hanno un enorme bisogno del contributo dei pazienti perché la collaborazione del malato, più ancora che del campione di sangue o tessuto che esso può offrire, è imprescindibile dalla fase di ricerca e comprensione della malattia. Dunque, cosa possono fare i pazienti per diventare parte attiva della ricerca? “La cosa più semplice è partecipare allo studio ENROLL-HD, il più grande studio di ricerca osservazionale al mondo e che vede la Fondazione LIRH in un ruolo protagonista per numeri e qualità dei dati raccolti”, chiarisce D’Alessio. “Chi partecipa mette a disposizione dei ricercatori dati e informazioni sulla propria patologia e sulla propria salute, oltre che campioni biologici di vario tipo. È davvero importante donare il proprio tempo e partecipare ai programmi di ricerca anche di semplice osservazione clinica e bioogica, non solo quelli interventistici, perché questi rappresentano proprio la base per focalizzare meglio l’approccio terapeutico nelle sperimentazioni terapeutiche future”. Per partecipare ad ENROLL-HD basta chiamare al numero verde LIRH 800 388 330 oppure inviare una mail ad Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..

Infine, a Palm Springs è chiaramente anche emerso che la malattia di Huntington ha una base genetica estesa ed è importante poter studiare anche geni diversi da quello che codifica per l’huntingtina ma che possono produrre una diretta conseguenza su quest’ultima. Il panorama delle modifiche strutturali di questa proteina o di ciò che ad essa è collegato è vario ed è oggetto di studio da parte di tanti centri di ricerca in tutto il mondo. La collaborazione di tutti, medici, ricercatori e pazienti, è fondamentale.

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