Dottor Andrea Pasini (Bologna): “Diversi farmaci sono in via di studio, ma è necessario trovare il modo di agevolare le sperimentazioni nei pazienti pediatrici”
“Negli ultimi anni, grazie ai notevoli progressi nella diagnosi e nel trattamento, il panorama della glomerulopatia da C3 sta cambiando radicalmente”, esordisce il dottor Andrea Pasini, responsabile della SSD Nefrologia e Dialisi Pediatrica del Dipartimento Ospedale della Donna e del Bambino dell'IRCCS Azienda Ospedaliero Universitaria di Bologna (Policlinico Sant'Orsola) ed ex presidente della Società Italiana di Nefrologia Pediatrica. La comprensione sempre più approfondita dei meccanismi alla base della patologia e la disponibilità di nuovi farmaci capaci di inibire il sistema immunitario del complemento stanno infatti rivoluzionando il paradigma terapeutico di questa rara patologia renale, in direzione di una medicina di precisione e sempre più personalizzata.
UNA PATOLOGIA CHE SI MANIFESTA IN MODI MOLTO ETEROGENEI
Il termine “glomerulopatia da C3” (C3G) è stato utilizzato per la prima volta nel 2012, durante un incontro tra esperti organizzato a Cambridge, nel Regno Unito. Questo nome definisce uno spettro di patologie renali rare causate da un’attivazione incontrollata della cascata del complemento, meccanismo di difesa innato del nostro organismo. Si tratta di condizioni complesse, caratterizzate da un progressivo danno glomerulare complemento-mediato, e dalla conseguente compromissione della funzionalità renale.
A causa del coinvolgimento glomerulare, la C3G è considerata un sottotipo di glomerulonefrite membrano-proliferativa (MPGN). Fino a pochi anni fa, la classificazione delle MPGN era di tipo istologico e si basava sull’osservazione al microscopio elettronico delle differenze anatomo-patologiche tra le diverse forme. “Le glomerulonefriti membrano-proliferative venivano divise in tre tipologie: il tipo I, il tipo II (o malattia a depositi densi) e il tipo III. Questa suddivisione, tuttavia, era limitata sia dal punto di vista clinico che prognostico”, spiega il dott. Pasini. Sulla base dei reperti della microscopia a immunofluorescenza (IF) è stata così formulata una nuova classificazione che, grazie alla stretta connessione con la patogenesi della malattia, ha una ricaduta terapeutica, oltre che una valenza diagnostica. A partire dal 2012, quindi, le MPGN sono state suddivise in glomerulopatie da C3 mediate dal complemento (C3G) e in glomerulonefriti membrano-proliferative mediate da immunocomplessi (IC-MPGN), a seconda della presenza di depositi di proteina C3 rispettivamente dominanti o co-dominanti in rapporto agli accumuli di immunoglobuline. Negli ultimi anni, tuttavia, anche questa seconda classificazione è stata messa in discussione. “Da studi recenti, infatti, è emerso come molto probabilmente queste due entità, C3G e IC-MPGN, rappresentino gli estremi di un unico spettro patologico piuttosto che due condizioni distinte”, sottolinea il nefrologo.
Nel tempo, inoltre, sono stati identificati elementi di rischio, congeniti e acquisiti, alla base della C3G. Tra i fattori congeniti sono state individuate numerose mutazioni a livello dei geni che codificano per alcune proteine del sistema del complemento (C3, fattore B, fattore H, fattore I, MCP/CD46 e THBD, ecc.); per quanto riguarda i fattori acquisiti, invece, è stata rilevata la presenza di autoanticorpi diretti contro il sistema del complemento (C3NeF o C5NeF, autoanticorpi che stabilizzano rispettivamente la convertasi C3 o la convertasi C5), anticorpi attivanti anti-FB o anti-C3b e anticorpi inattivanti anti-FH. “Questi risultati hanno fornito i presupposti per lo sviluppo di nuove tecniche diagnostiche (test biochimici e genetici) e per la messa a punto di terapie sempre più mirate al singolo difetto”, spiega il dott. Pasini.
LA TERAPIA TRADIZIONALE
“Mi occupo di C3G da molti anni”, racconta l’ex presidente della Società Italiana di Nefrologia Pediatrica. “All’inizio non c’erano molti farmaci in grado di controllare efficacemente la malattia. Si procedeva con una terapia cosiddetta ‘non mirata’, che prevedeva l’utilizzo di corticosteroidi e/o immunosoppressori, spesso con scarsi risultati”. Anche il trapianto di rene, purtroppo, non si poteva considerare una soluzione definitiva, a causa dell’elevato rischio di recidiva della malattia.
L’avvento degli inibitori del complemento e la capacità delle nuove molecole di agire a diversi livelli della cascata stanno cambiando la storia naturale di questa patologia. “Il problema è che molti di questi farmaci sono ancora in via di sperimentazione e vi possiamo accedere solo partecipando ai trial clinici o tramite protocolli di uso compassionevole (quando possibile). Per questo motivo, soprattutto nelle fasi immediatamente successive alla diagnosi, per arginare la progressione della malattia, in particolare del danno renale dato dalla proteinuria, ancora oggi utilizziamo la terapia tradizionale”, chiarisce il dott. Pasini. Oltre agli steroidi, tra gli immunosoppressori si è dimostrato efficace il micofenolato mofetile, farmaco indicato per la profilassi del rigetto acuto nei pazienti trapiantati e che, grazie alla sua capacità di ridurre la risposta immunitaria ad ampio spettro, può portare alla remissione della malattia in alcuni pazienti. “Non si può certo definire una terapia di precisione - puntualizza il nefrologo - ma finché non avremo a disposizione farmaci più specifici ben vengano anche questi medicinali tradizionali, come il cortisone, il micofenolato, gli ACE-inibitori, i sartani e, speriamo a breve, anche lo sparsentan e le glifozine, attualmente utilizzabili solo nell’adulto”.
NUOVE SPERANZE DALLA RICERCA, MA ANCORA TROPPO POCHE LE SPERIMENTAZIONI PEDIATRICHE
“Un grosso problema - chiarisce con amarezza il dott. Pasini - riguarda proprio l’accesso alle terapie in via di sperimentazione, soprattutto nella fascia d’età pediatrica”. Testare i farmaci sui bambini, infatti, è difficoltoso sia dal punto di vista etico che economico: servono modalità di sicurezza aumentate e criteri di inclusione molto più rigidi rispetto a quelli previsti per l’adulto. Per questo motivo, le sperimentazioni pediatriche sono poche e rientrarvi è spesso complicato, anche dal punto di vista burocratico e organizzativo. “Sebbene comprensibile, questo aspetto ostacola la possibilità di somministrare la terapia in tempo utile a prevenire il danno”, racconta il nefrologo. “Molte malattie di origine genetica, infatti, hanno esordio in età infantile, come accade per la glomerulopatia da C3. Rendere disponibile un farmaco solo dopo i 16 o i 18 anni di età, o solo dopo il raggiungimento di un determinato parametro di disfunzionalità (ad esempio, in molti studi sperimentali per la C3G il rapporto tra proteinuria e creatinina urinaria PrU/CrU dev’essere maggiore di 1) fa sì che, nell’attesa, si crei un danno renale non recuperabile”. In generale, esiste un notevole divario tra gli studi condotti in pediatria e le esigenze terapeutiche dei bambini e degli adolescenti che, soprattutto nelle malattie genetiche rare, rappresentano la fetta più consistente della popolazione di pazienti. “Oggi, visti i notevoli risultati ottenuti da alcune molecole nell’adulto - e ben sapendo che i bambini non sono uomini e donne in miniatura e potrebbero rispondere in maniera diversa a determinati farmaci - occorre ripensare al nostro modo di fare ricerca”, spiega il dottor Pasini. “Per la C3G, ad esempio, i trial clinici in età pediatrica sono pochi e i criteri di arruolamento molto stringenti, senza contare che alcuni studi, in doppio cieco, pongono il clinico di fronte al problema etico di somministrare il placebo a bambini che, invece, avrebbero urgente bisogno di un farmaco efficace”.
LE TERAPIE IN VIA DI SVILUPPO
Visto l’incredibile successo terapeutico riportato con altre patologie (ad esempio la sindrome emolitico-uremica atipica o l’emoglobinuria parossistica notturna), il primo inibitore del complemento ad essere stato testato per il trattamento della C3G è eculizumab, anticorpo monoclonale ricombinante umanizzato capace di bloccare la porzione terminale della cascata del complemento. “Risale al 2012 la pubblicazione dei primi casi aneddotici di giovani pazienti affetti da C3G trattati con eculizumab”, racconta il dott. Pasini. All’epoca, le risposte, in termini di riduzione della proteinuria e stabilizzazione della funzionalità renale, sembravano convincenti e si iniziò anche a ipotizzare che fossero i pazienti con alti livelli di SC5b-9 (complesso terminale del complemento) quelli che potevano trarre maggior beneficio dal trattamento con eculizumab. “Fu sulla base di questi primi risultati che vennero disegnati nuovi studi clinici che, tuttavia, non risposero alle aspettative”, racconta il dottor Pasini. “Ne sono un esempio le ricerche condotte dall’Istituto Mario Negri di Bergamo, estremamente preziose nonostante il successo solo parziale”. Ad esempio, i dieci pazienti arruolati nello studio EAGLE (condotto con schema on-off-on-off), sebbene in un primo momento avessero mostrato una diminuzione della proteinuria, durante il periodo di astensione dalla terapia con eculizumab andarono incontro a un’esacerbazione della malattia ed ad un peggioramento dei parametri laboratoristici, parametri che non migliorarono in modo significativo nemmeno nel successivo anno di ripresa del trattamento.
“Dopo questi studi - prosegue Pasini - la parte di ricerca sulla porzione terminale del complemento, incluse le sperimentazioni sul farmaco avacopan, è stata progressivamente accantonata e ad oggi gli studi più promettenti sono quelli che si concentrano nella ‘zona intermedia’ della cascata: sulla proteina C3 e sul fattore B”, spiega Andrea Pasini. Un caso esemplare riguarda l’inibitore mirato di C3 e C3b, pegcetacoplan, in grado di mitigare il danno renale mediato dal complemento nella C3G e in altre malattie glomerulari, con un immediato incremento dei livelli plasmatici di C3. Anche iptacopan, potente inibitore orale del fattore B, si è dimostrato efficace nei primi studi sperimentali. I risultati dell’inibizione del fattore D, ottenuta mediante l’utilizzo di danicopan, invece, non sono finora stati ottimali: dagli studi emerge come l’attività della via alternativa del complemento, drasticamente in calo subito dopo la somministrazione del farmaco, ricominci nel giro di poche ore.
L’estrema eterogeneità con cui si manifesta la glomerulopatia da C3 è sicuramente alla base della variabilità delle risposte ai diversi farmaci. “Da qui l’esigenza di caratterizzare ogni singolo paziente, per poter eseguire un trattamento mirato alla sua specifica anomalia del complemento”, afferma il dottor Pasini. “Per ora non siamo ancora arrivati alla profilazione individuale, ma sono stati pubblicati degli studi che propongono una suddivisione in cluster, a seconda dei meccanismi patogenetici alla base della malattia”. Questo tipo di approccio getta le basi per una medicina di precisione in grado di fornire un intervento sempre più mirato e specifico. “Quanto accade oggi per la C3G è quello che in futuro sarà il destino di tutte le patologie: una medicina personalizzata, ‘sartoriale’, ritagliata e cucita sulle caratteristiche del singolo paziente”, conclude l’esperto.
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