Un tumore raro che obbliga ad agire con rapidità per favorire un decorso post-operatorio positivo
I clinici degli ospedali di tutto il mondo agiscono in stretta aderenza alle Linee Guida divulgate dalle più grandi società scientifiche e predispongono percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (PDTA) che, specie nelle situazioni in cui sia richiesto un approccio multidisciplinare, permettono la corretta presa in carico del malato. In medicina pochissime volte l’azzardo paga. Questo è ancora più vero nel caso di tumori rari come il carcinoma midollare della tiroide (MTC).
Secondo i dati di incidenza (si parla di circa 14 casi ogni 100.000 nati), il tumore della tiroide non si può definire un tumore raro, ma di questo ampio insieme fanno parte, con percentuali di incidenza molto diverse: il carcinoma follicolare, il carcinoma papillare, i tumori anaplastici e il carcinoma midollare. Mentre il carcinoma papillare è il più frequente, in modo particolare nella fascia d’età tra 15 e 40 anni e all’interno del sesso femminile, il MTC è notevolmente più raro. Inoltre, di fronte a tassi di sopravvivenza a 10 anniche per il carcinoma papillare si aggirano tra il 70-80%, le medesime probabilità di sopravvivere al MTC si raggiungono in metà tempo (5 anni). Nell’80% dei casi il MTC insorge su base sporadica ma nel restante 20% si presenta come un tumore familiare. In questo caso si manifesta nell'ambito delle neoplasie endocrine multiple di tipo 2 (MEN2) di tipo A o B e la conferma diagnostica può giungere dall’identificazione delle mutazioni del proto-oncogene RET. Sia nelle forme sporadiche che in quelle familiari, tuttavia, i dosaggi della calcitonina (CT) e, ancor meglio, della procalcitonina (pro-CT) diventano essenziali, tanto che in molti ospedali esse vengono misurate sempre, a prescindere dal sospetto di tumore, nei soggetti con noduli alla tiroide. Come avviene al Centro Diagnosi e Terapia della Malattie Tiroidee dell’Istituto Oncologico della Svizzera Italiana di Lugano.
“Presso il nostro centro, il paziente che per caso alla palpazione abbia scoperto un nodulo tiroideo, esegue un esame per la verifica della funzionalità tiroidea, il TSH (con eventualmente anche fT3 ed fT4, anticorpi anti-tireoglobulina, anticorpi anti-tireoperossidasi e anticorpi anti-recettore del TSH, N.d.R.) e anche il dosaggio di CT e pro-CT sempre accoppiate” – spiega il dott. Pierpaolo Trimboli, da anni in forza presso l’istituto svizzero – “Proprio nei giorni scorsi, ad esempio, abbiamo ricevuto un paziente affetto da gozzo multinodulare che non aveva mai eseguito il dosaggio della CT e della pro-CT. È stata perciò richiesta la misurazione di entrambi i parametri. La CT è risultata superiore alla soglia di normalità ma inferiore alla soglia decisionale per la presenza di MTC. Tuttavia, la positività della pro-CT ha destato allarme, tanto che abbiamo immediatamente eseguito un agoaspirato e il dosaggio della CT sull’ago ha confermato il risultato della pro-Ctindicando la presenza di un MTC”. Un esempio che chiarisce in maniera inequivocabile il ruolo della pro-CT e della valutazione della CT sul materiale aspirato dal nodulo nella diagnostica delle forme midollari.
Una volta riscontratoil MTC il paziente viene immediatamente avviato alla chirurgia. Infatti, visto l’elevato rischio di metastasi di questo raro tipo di tumore, le Linee Guida depongono a favore della tiroidectomia totale in associazione all’asportazione dei linfonodi regionali. Nel nostro Centro Tiroide il monitoraggio dopo trattamento chirurgico del MTC prevede il dosaggio della pro-CT che, quando presente, in circolo è legata alla persistenza di una malattia strutturale. “Al riscontro di un livello alto di pro-CT dopo tiroidectomia si sottopone il paziente ad una valutazione mediante tecniche di imaging quali TAC o PET per scoprire dove la malattia residua sia localizzata” – aggiunge Trimboli – “Quando localizziamo la malattia si valuta la possibilità di asportarla chirurgicamente, ma se questo non si può fare ci sono due possibilità: si fa rientrare il paziente in un protocollo di sorveglianza della malattia oppure, nel momento in cui questa mostri una progressione dimensionale e strutturale, con metastasi in diversi distretti del corpo, si ricorre a farmaci chemioterapici specifici come il Vandetanib che però va usato solo se la malattia determina sintomi o se la sintomatologia è imminente”.
I sintomi del MTC sono molto generici e comprendono disturbi gastro-intestinali gravi con diarrea o arrossamenti del viso e vampate di calore. Tuttavia, le metastasi in sedi come la trachea o i polmoni possono comportare disturbi respiratori e contribuire a peggiorare la prognosi. In tal caso la scelta è quella di iniziare la terapia con Vandetanib, un inibitore delle tirosin-chinasi (TK), che agisce sia a livello del proto-oncogene RET che del VEGFR (Vascular Endothelial Growth Factor receptor) e dell’EGFr (Epidermal Growth Factor receptor), nel tentativo di contenere la crescita del tumore. Farmaci come questo hanno prodotto concreti risultati nella stabilizzazione della patologia in studi clinici di Fase III ma comportano anche una serie di effetti collaterali di natura importante. “Sostanzialmente, si instaura una terapia che sarà per sempre” – specifica Trimboli – “Spesso la qualità di vita per il paziente non è ottimale ma prima di questi farmaci non esistevano altre opzioni di trattamento. Tuttavia, il Vandetanib non guarisce ma stabilizza la malattia almeno per uno o due anni. Studi clinici hanno dimostrato che il 40-45% dei pazienti presenta una stabilità di malattia radiologicamente confermata a partire dall’introduzione del farmaco”. A questo punto però il paziente passa in un ambiente oncologico.
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