Le onlus EpaC e AMAF e la società scientifica AISF hanno accolto con rassegnazione il no dell’Agenzia alla proposta di ottenere il farmaco tramite la legge 648 del 1996
Roma – L'occasione di un confronto diretto con l'Agenzia Italiana del Farmaco sulla vicenda dell'acido obeticolico, finalmente, c'è stata – grazie a una conferenza stampa organizzata dall’On. Ilenia Malavasi il 25 marzo alla Sala Stampa della Camera dei Deputati – ma per i pazienti affetti da colangite biliare primitiva (PBC) e per i loro clinici l'esito non è stato quello sperato. Il Direttore Tecnico-Scientifico di AIFA, Pierluigi Russo, ha infatti comunicato loro che la richiesta di applicare la legge 648 del 1996 non è un'opzione percorribile. Quindi, in seguito alla revoca dell'autorizzazione all'immissione in commercio del settembre scorso, il farmaco continuerà a non essere più disponibile.
A illustrare il ruolo dell'acido obeticolico (nome commerciale Ocaliva) in questa patologia è stato Umberto Vespasiani Gentilucci, professore associato di Medicina Interna e dottore di ricerca in Epatologia Sperimentale e Clinica presso l'Università Campus Bio-Medico di Roma e responsabile scientifico del Club Epatologi Ospedalieri (CLEO). “La PBC è una malattia autoimmune, colestatica, che colpisce i piccoli dotti biliari del fegato e che riguarda prevalentemente le donne (con un rapporto di 9:1 rispetto agli uomini). La maggior parte delle pazienti risponde al trattamento di prima linea con un sale biliare chiamato acido ursodesossicolico, che normalizza alcuni enzimi epatici, in particolare la fosfatasi alcalina e la bilirubina. Le pazienti che ottengono questo risultato hanno una prognosi e un'aspettativa di vita sovrapponibile a quelle di chi non ha la malattia. Però, a seconda delle differenti casistiche, dal 25 al 40% delle pazienti non riesce a rispondere completamente all'acido ursodesossicolico, e fino al 2016 non abbiamo avuto per loro una terapia di riscatto. Si tratta delle pazienti più complicate, perché di solito non rispondere al trattamento di prima linea significa per definizione avere una malattia più aggressiva e anche un maggior rischio di progressione in termini di fibrosi epatica, fino alla cirrosi epatica. Nel 2016 è arrivata la prima terapia di seconda linea, l'acido obeticolico: gli studi hanno dimostrato che questo farmaco era in grado di impattare positivamente proprio su quei forti determinanti prognostici – la fosfatasi alcalina e la bilirubina – che hanno un riconosciuto ruolo nel dettare la progressione della malattia verso la cirrosi e le sue complicanze. L'acido obeticolico ha chiaramente dimostrato di riuscire a riscattare perlomeno il 50% delle pazienti che non rispondono all'acido ursodesossicolico”, ha spiegato l'esperto.
Questa esperienza clinica nella ‘real life’, tuttavia, non è stata sufficiente ad EMA (Agenzia Europea per i Medicinali) per cambiare la propria decisione e lasciare il farmaco in commercio. E queste stesse evidenze non sono nemmeno valse a far sì che la proposta di applicare la legge 648 del 1996, avanzata da AISF – Associazione Italiana per lo Studio del Fegato, fosse accettata da AIFA. Il segretario nazionale di AISF, la prof.ssa Vincenza Calvaruso, avverte che le stesse difficoltà potrebbero ripresentarsi anche in futuro. “Il problema non è solo la disponibilità del farmaco, perché noi oggi possiamo chiedere l'uso compassionevole, e lo facciamo. Il punto è che stanno per arrivare due nuove terapie di seconda linea che avranno esattamente lo stesso percorso di approvazione dell'acido obeticolico, ovvero un trial confermativo sull'approvazione condizionata. Quindi, fra qualche anno, potremmo trovarci nella stessa situazione di oggi, e questo è l'avvertimento che la comunità scientifica vuole dare. Queste molecole saranno approvate per lo stesso outcome dell'acido obeticolico, cioè la normalizzazione o la riduzione dei valori biochimici di laboratorio, e non sugli outcome clinici, come la morte o lo scompenso di malattia epatica. Ma quando avremo questi nuovi farmaci a disposizione, in commercio, potremo continuare a tenere i nostri pazienti nel braccio placebo? È molto difficile dare questa risposta, perché significherebbe negare il farmaco a un paziente che invece potrebbe averlo”, evidenzia la prof.ssa Calvaruso.
Agli interrogativi della professoressa Calvaruso si aggiungono quelli dei pazienti, come ha raccontato Ivan Gardini, presidente dell'associazione EpaC: “Nella nostra comunità ci siamo chiesti tante cose. Ad esempio, come è possibile che negli Stati Uniti il farmaco sia in commercio e che in Europa sia stato ritirato dopo oltre sette anni di utilizzo? Perché questa differenza di giudizio? L'EMA dovrebbe porre dei limiti temporali a un iter approvativo, altrimenti diventa corresponsabile di eventuali danni causati ai pazienti e alle finanze degli Stati membri. Perché non sono stati considerati i dati di real life? Perché il giudizio sull'efficacia del farmaco è stato deciso da medici di altre discipline, che non sanno nulla della patologia, né hanno mai visto un paziente con PBC?”, incalza Gardini. “E ancora, per quale motivo l'EMA non ha preso in considerazione le lettere di protesta di associazioni di pazienti e società scientifiche, come quella della Società Europea del Fegato? Com'è possibile che l'EMA ritenga credibile che il gruppo di pazienti in placebo nei trial registrativi resti in placebo per anni, dopo che il farmaco è in commercio? È ovvio che i pazienti vogliono il farmaco: il gruppo placebo si scioglie e quindi non è più possibile fare valutazioni corrette”.
Deluso anche Davide Salvioni, presidente di AMAF – Associazione Malattie Autoimmuni del Fegato: “Chiaramente non abbiamo ricevuto le notizie che ci aspettavamo, e penso che anche i clinici oggi si trovino con una carta in meno da poter giocare per quei pazienti che si trovano in una condizione particolare. Sono un gruppo ristretto, ma spero che per loro possano essere attivati dei percorsi specifici. In Italia sono presenti tantissimi centri di eccellenza, dove i clinici possono prendersi cura dei pazienti nel migliore dei modi. L'invito che faccio a tutta la comunità della PBC è quindi di affidarci a loro, che anche in assenza dell'acido obeticolico sapranno indicarci un modo per combattere questa malattia”, conclude Salvioni. “Quella di oggi è stata un'occasione persa, ma non possiamo abbatterci: dobbiamo continuare nel nostro percorso e mantenere stretta l'alleanza tra pazienti e clinici”.