Dott. Antonio Gargiulo (Ospedale Bambino Gesù): “Distinguere tempestivamente la patologia da altre affezioni renali simili permette di garantire ai pazienti un adeguato trattamento”
Immaginate di dover risolvere un puzzle senza avere la certezza che tutti i pezzi siano sul tavolo. Questa è la sensazione che accompagna la diagnosi della glomerulopatia da C3 (C3G), una rara e complessa malattia renale che può manifestarsi in maniera assai variabile, con sintomi talvolta condivisi con altre patologie glomerulari. “Ci sono casi in cui la C3G si presenta in maniera abbastanza conclamata, con tutti i pezzi del puzzle in bella mostra; altre volte, invece, i sintomi sono talmente sfumati che si può correre il rischio di non individuarla correttamente ed è necessario controllare ‘sotto il tavolo’ per essere sicuri di non aver perso nessun pezzo”, spiega il dottor Antonio Gargiulo, nefrologo dell’Unità Operativa di Nefrologia e Dialisi dell’IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.
“Nonostante le difficoltà, riconoscere tempestivamente questa patologia è fondamentale”, sottolinea Gargiulo. “Una diagnosi corretta e precoce significa non solo migliorare la prognosi ma anche aprire la strada a trattamenti personalizzati, riducendo il rischio di complicazioni irreversibili, come l’insufficienza renale cronica”.
UNA MALATTIA RENALE MEDIATA DAL COMPLEMENTO
“La C3G è una patologia complessa, che abbiamo iniziato a comprendere più a fondo solo una quindicina di anni fa”, precisa il dottor Gargiulo. “Lo studio approfondito dei sui meccanismi patogenetici ha permesso, infatti, una riclassificazione della malattia, che prima veniva definita come glomerulonefrite membranoproliferativa (MPGN) e che oggi, invece, si conosce in modo più specifico come “glomerulopatia da C3”. Queste scoperte hanno permesso di sviluppare nuove tecniche diagnostiche, sia biochimiche che genetiche, e di progettare terapie sempre più mirate al singolo difetto sottostante la malattia”.
La C3G colpisce i glomeruli, le unità filtranti del rene, provocando infiammazione e danno renale progressivo che può condurre, in circa il 50% dei casi, a insufficienza renale cronica terminale, con necessità di dialisi e trapianto. Alla base della malattia vi è un’attivazione anomala ed esagerata della via alternativa del complemento. “La via alternativa del complemento, insieme alla via classica e alla via della lectina, costituisce un meccanismo fondamentale di difesa del nostro sistema immunitario, meccanismo che chiamiamo ‘immunità innata’”, spiega il dott. Gargiulo. “La C3G può esordire a tutte le età – dai primi mesi di vita all’età adulta – con uno spettro di sintomi estremamente variabile: la malattia, ad esempio, si può manifestare con una sindrome nefritica acuta, caratterizzata da insufficienza renale, edema, ipertensione arteriosa, macroematuria (presenza di sangue visibile nelle urine) e proteinuria (perdita di proteine nelle urine) che, in alcuni casi, culmina in una vera e propria sindrome nefrosica; altre volte, invece, può insorgere in ‘sordina’, con una microematuria e una lieve proteinuria, riscontrabili solo grazie agli esami di laboratorio, in assenza di altri sintomi visibili, per lo più scoperta occasionalmente durante accertamenti di routine, ad esempio durante gli esami eseguiti per l’idoneità sportiva”. La tipologia e la gravità delle manifestazioni dipendono in larga parte dai meccanismi alla base della malattia.
LA SFIDA DIAGNOSTICA
“Nella glomerulopatia da C3 l’attivazione incontrollata del sistema del complemento può avere molteplici cause, alcune delle quali in comune con altre patologie glomerulari”, riferisce Gargiulo. La C3G, infatti, può avere un’origine congenita, con mutazioni nei geni che codificano per alcune proteine che regolano il sistema del complemento (fattori come C3, B, H, I, ecc.), o può essere acquisita, con lo sviluppo di autoanticorpi che interferiscono con il corretto funzionamento dello stesso complemento (C3NeF e C5NeF, che stabilizzano rispettivamente le convertasi C3 e C5, autoanticorpi inattivanti il fattore H oppure autoanticorpi attivanti anti-fattore B).
“Alcune di queste mutazioni genetiche e il C3Nef sono stati riscontrati anche in pazienti con diagnosi accertata di glomerulonefrite membrano-proliferativa mediata da immunocomplessi (IC-MPGN), una patologia che ha molto in comune con la C3G e che presenta manifestazioni cliniche simili”, dichiara il nefrologo. “Distinguere la C3G dalla IC-MPGN può risultare complesso; inoltre, da studi recenti è emerso come molto probabilmente queste due entità rappresentino gli estremi di un unico spettro patologico piuttosto che due condizioni differenti”.
Sebbene la C3G e la IC-MPGN possano condividere sintomi clinici simili, come la proteinuria e la macroematuria, le loro differenze patogenetiche sono indizi fondamentali per arrivare a una diagnosi corretta. “Le due malattie si possono distinguere grazie alla biopsia renale, soprattutto attraverso l’immunofluorescenza”, spiega il dottor Gargiulo. “Questa tecnica, che utilizza sostanze fluorescenti per evidenziare la presenza di diverse molecole all’interno dei glomeruli, rivela, nel caso dell’IC-MPGN, la prevalenza di depositi di immunoglobuline (IgG, IgM), mentre nel caso della C3G mostra una predominanza (di almeno due ordini di grandezza) di depositi di C3 con scarsa o assente presenza di immunoglobuline. Va precisato che esistono evidenze – riscontrabili grazie a biopsie ripetute – del fatto che alcuni pazienti possano passare istologicamente da una forma all’altra”.
Dal punto di vista clinico, la glomerulonefrite membrano-proliferativa mediata da immunocomplessi può essere associata a condizioni sottostanti, come infezioni croniche (epatite B e C), malattie autoimmuni (lupus eritematoso sistemico) o gammapatie monoclonali. Pertanto, la sua gestione richiede un approccio mirato sia alla malattia renale che alla patologia sistemica concomitante. “Distinguere la C3G dalla IC-MPGN non è quindi solo un esercizio accademico – precisa Gargiulo – ma è cruciale per impostare la terapia più adeguata”.
Un altro elemento caratteristico della C3G è il suo legame frequente con eventi “trigger”, come infezioni virali o batteriche, che possono scatenare la malattia e far emergere una predisposizione genetica latente. “Questo rende la diagnosi precoce particolarmente impegnativa, poiché la malattia può inizialmente essere confusa con altre glomerulonefriti, come la glomerulonefrite post-infettiva”, afferma il nefrologo. “Quest’ultima condizione, che ha in genere un decorso più benigno, presenta sintomi sovrapponibili alla C3G, come la macroematuria e la riduzione del livello sierico di C3; inoltre, proprio come la C3G, è associata ad un evento infettivo trigger. Tuttavia, un occhio allenato può cogliere alcune sottili differenze: mentre nella glomerulonefrite post-infettiva la sintomatologia emerge dopo circa una/due settimane dall’evento infettivo, la C3G comincia quasi contemporaneamente al trigger; un’altra differenza fondamentale risiede nella normalizzazione dei livelli del complemento: nella glomerulonefrite post-infettiva questa avviene solitamente entro 4-8 settimane, mentre nella C3G permane, indicando un meccanismo patologico persistente”.
“La biopsia renale rappresenta uno strumento diagnostico imprescindibile”, spiega Gargiulo. Quando si esegue la biopsia renale, al prelievo del materiale segue lo studio attraverso la microscopia ottica (MO), l’immunofluorescenza (IF) e la microscopia elettronica (ME). “Mentre l’immunofluorescenza permette di evidenziare la natura dei depositi (IgG/IgM, IgA, C3, ecc.), la microscopia elettronica è essenziale per analizzare la loro morfologia e localizzazione, nonché la struttura del glomerulo e della membrana di filtrazione. Ciò permette di confrontare le caratteristiche istologiche della glomerulopatia da C3 con quelle di patologie simili e, nel caso in cui sia confermata la presenza della C3G, di distinguere le sue due diverse varianti: la malattia da depositi densi (DDD) e la glomerulonefrite da C3 (C3GN)”, chiarisce il dott. Gargiulo.
“Un approccio diagnostico integrato, che combini dati clinici, istologici e genetici, è fondamentale per individuare precocemente la malattia e garantire un trattamento tempestivo ed adeguato”, dichiara il nefrologo. “La valutazione genetica e la ricerca di autoanticorpi, ad esempio, possono fornire indicazioni preziose sulla natura della malattia e sulle possibili strategie terapeutiche”.
TERAPIE MIRATE E PROSPETTIVE FUTURE
Una volta confermata la diagnosi, il trattamento della C3G si basa da una parte su approcci volti a ridurre l’infiammazione e rallentare la progressione del danno renale, e dall’altra, proprio grazie alle nuove acquisizioni sulla patogenesi della malattia, su terapie mirate come gli inibitori del complemento. Le terapie tradizionali includono corticosteroidi e micofenolato mofetile, farmaci che agiscono come immunosoppressori e antinfiammatori. “A seconda della gravità della malattia il cortisone può essere somministrato per via orale o endovenosa”, dichiara il nefrologo. “In alcuni casi selezionati, o nell’eventualità che questo primo approccio terapeutico non ottenga una buona risposta clinica, si può procedere con l’utilizzo di altre molecole, come la ciclofosfamide o gli inibitori della calcineurina (ciclosporina o tacrolimus). Naturalmente, è fondamentale affiancare una terapia reno-protettiva con farmaci come gli ACE-inibitori o i sartani, a cui si associa la dieta iposodica. Tutte queste opzioni, però, non affrontano direttamente le cause molecolari patogenetiche alla base della malattia”.
Come accaduto per altre patologie rare, come la sindrome emolitico uremica atipica (SEUa) o la sindrome emolitico-uremica complemento-mediata (CM-HUS), l’avvento dei farmaci inibitori del complemento può rappresentare una vera e propria rivoluzione anche per il trattamento della C3G. Nuove molecole come iptacopan e pegcetacoplan, ancora in fase di sperimentazione, sono in grado di inibire la via alternativa del complemento bloccandone specifiche componenti, mirando così al principale meccanismo patogenetico della glomerulopatia da C3 e offrendo nuove speranze ai pazienti. “Grazie a questi farmaci - attualmente in uso presso il nostro dipartimento grazie alla partecipazione a diversi trial clinici internazionali da parte dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù - stiamo osservando miglioramenti significativi sia nei parametri di laboratorio che nella qualità di vita dei pazienti”, spiega il dott. Gargiulo. “Queste molecole, negli studi preliminari, hanno dimostrato efficacia nel ridurre la proteinuria e nello stabilizzare la funzione renale mantenendo un elevato profilo di sicurezza, e potrebbero diventare, in un immediato futuro, i famaci d’elezione nel trattamento di questa malattia”.
“Ogni paziente con C3G o IC-MPGN rappresenta una sfida unica”, conclude Gargiulo. “Con una diagnosi tempestiva, un trattamento personalizzato e un approccio integrato possiamo offrire a questi pazienti una prospettiva e qualità di vita nettamente migliori”.