All’Università di Padova ci si interroga su un possibile legame tra le due patologie sulla base della loro distribuzione sul territorio italiano
Esiste una relazione che colleghi una rara patologia polmonare come il deficit di alfa-1-antitripsina e il COVID-19? Se lo sono chiesti i ricercatori dell’Università di Padova, guidati dal prof. Andrea Vianello, direttore dell’Unità di Fisiopatologia Respiratoria del Policlinico Universitario patavino, partendo da un presupposto importante: la distribuzione geografica della malattia suscitata dal virus SARS-CoV-2.
Ad oggi (dati aggiornati al 28 gennaio 2021), il numero totale di ammalati di COVID-19 in Italia supera i 2,5 milioni, con più di 87mila decessi. Un dato, quest’ultimo, che colloca il nostro Paese al sesto posto nel mondo per numero di vittime. Fin dalla prima ondata della pandemia, è stato evidente come le regioni più colpite fossero quelle del Nord-Italia, in particolare Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte, e ciò ha spinto gli studiosi dell’Ateneo di Padova a interrogarsi su quali fattori abbiano contributo a questa anomala distribuzione geografica, individuando una probabile correlazione con la diffusione sul territorio nazionale del deficit di alfa-1-antitripsina (DAAT).
Questa malattia si contraddistingue per la carenza dell’enzima alfa-1-antitripsina, una proteina che inibisce l’azione di un enzima, l’elastasi neutrofila, a livello dei polmoni, proteggendoli dall’innescarsi di fenomeni infiammatori anche gravi. Infatti, il DAAT è associato ad un aumentato rischio di sviluppare enfisemi polmonari e patologie epatiche croniche. In una lettera pubblicata sulla rivista Archivos de Bronconeumologia, il prof. Andrea Vianello e il prof. Fausto Braccioni osservano che, secondo i dati del Registro Italiano per il deficit severo di alfa-1-antitripsina, anche questa rara malattia ha una più alta prevalenza nelle regioni del Nord-Italia, tanto che il 47% dei casi è stato registrato nella sola regione Lombardia. Logicamente, il dato epidemiologico non è in grado, da solo, di dimostrare un eventuale legame tra DAAT e COVID-19, ed è qui che l’ipotesi suggerita da Vianello e Braccioni si fa interessante.
Infatti, una delle più ricorrenti domande - rimasta peraltro ancora irrisolta - sul COVID-19 è perché alcune persone si ammalino più gravemente di altre. È capitato, infatti, che all’interno della famiglia uno dei due coniugi si sia ammalto e l’altro no, o che due colleghi, quotidianamente abituati a stare in contatto tra loro, abbiano sviluppato la malattia in forma diversa, quasi del tutto asintomatica in un caso e molto grave nell’altro. Di certo il periodo di esposizione al virus e le sue varianti concorrono a creare una tale diversità, ma subentrano anche meccanismi individuali ai quali i ricercatori hanno cercato di dare risposta in vari studi. Ad esempio, in una ricerca pubblicata sulla rivista Nature Immunology, il prof. Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’IRCCS Istituto Humanitas di Rozzano, in collaborazione con i colleghi dell’Ospedale “Papa Giovanni XXIII” di Bergamo, aveva messo in rilievo il ruolo della proteina PTX3 in associazione alle forme già gravi di COVID-19.
Quello che Vianello e Braccioni suggeriscono è che il DAAT provochi una carenza proprio dell’enzima che inibisce l’azione della proteina TMPRSS2, in grado di favorire l’ingresso del SARS-CoV-2 nelle cellule. Infatti, l’accesso di questo virus nel nostro organismo dipende dal legame della proteina spike con il recettore ACE2 ma, al contempo, necessita della serin proteasi TMPRSS2. In pratica, gli studiosi di Padova si sono chiesti se esista una correlazione tra il meccanismo all’origine del DAAT e i fenotipi più gravi di COVID-19.
Questa non è la prima ricerca che tocca il tema dei meccanismi con cui il virus SARS-CoV-2 penetra nelle nostre cellule, determinando in alcuni una sintomatologia molto grave e lasciando quasi del tutto asintomatici molti altri. Basti pensare agli studi condotti sulla risposta dell’interferone nei casi più gravi di malattia. Tuttavia, il deficit di alfa-1-antitripsina è una patologia fortemente sottodiagnosticata, i cui casi, quindi, potrebbero essere molto più numerosi di quanto si pensi. Per tale ragione, l’ipotesi di Vianello e Braccioni appare decisamente intrigante e andrebbe adeguatamente approfondita in ulteriori studi mirati, perché potrebbe avere il duplice valore di gettare luce su una malattia nuova come il COVID-19 e, al contempo, di far progredire le conoscenze su una patologia rara come il DAAT.