Scrittrice, giornalista e attivista, la donna convive con la sindrome di Jarcho-Levin da quando è nata. Ora è sceneggiatrice e interprete del cortometraggio “Lacrime”, tratto da un suo racconto
Un dolore che ha il sapore del fuoco e fa terra bruciata del corpo, divorando muscoli, tendini, nervi. Che ti inchioda, cronico, a un letto trasformato in prigione. È da questo tormento che nasce “Lacrime”, il cortometraggio ispirato all’omonimo racconto di Ilaria Parlanti, scrittrice, giornalista e attivista per i diritti delle persone con disabilità. Diretto da Sabrina Monno e scritto e interpretato dalla stessa Parlanti, il corto intende sensibilizzare sul tema della disabilità e delle malattie rare, in particolare sulla sindrome di Jarcho-Levin. “Ho conosciuto Sabrina Monno attraverso i social”, spiega la scrittrice. “Avevo già avuto modo di apprezzare i suoi lavori e, dopo aver letto il mio racconto, ha subito sposato il progetto di realizzare un cortometraggio. Così, abbiamo scritto il soggetto e la sceneggiatura, abbiamo trovato una produzione e ci siamo lanciate in questa avventura. Ora stiamo cercando patrocini e sinergie tra le principali organizzazioni che si occupano di malattie rare, e presto avvieremo un crowdfunding. Poi saremo finalmente pronte a girare”.
LA SINDROME DI JARCHO-LEVIN: UNA MALATTIA RARA E COMPLESSA
La sindrome di Jarcho-Levin, o disostosi spondilocostale autosomica recessiva (ARSD), è una malattia genetica molto rara che – come spiegato su Orphanet – provoca anomalie nella segmentazione delle vertebre e delle costole. Chi ne è affetto presenta collo e busto corti, bassa statura e una colonna vertebrale deformata, con scoliosi, cifoscoliosi e lordosi. Il torace ridotto può causare gravi difficoltà respiratorie soprattutto nei neonati, portando a infezioni frequenti e, nei casi più severi, a insufficienza respiratoria potenzialmente fatale nel primo anno di vita. L’ARSD è ereditaria e coinvolge mutazioni in quattro geni della via del segnale Notch. L’incidenza e la prevalenza non sono note e la malattia viene generalmente diagnosticata alla nascita attraverso l’osservazione clinica e il ricorso a esami di imaging come radiografia ed ecografia fetale. Il trattamento include interventi chirurgici correttivi e supporto ortopedico per migliorare la qualità di vita dei pazienti.
LA SCRITTURA COME FORMA DI ATTIVISMO
Autrice dei romanzi “La verità delle cose negate” (Arsenio editore 2021) e “Parigi è stata uccisa” (Dialoghi 2023), Ilaria Parlanti ha cominciato a scrivere all’età di 12 anni, ottenendo oltre 300 menzioni di merito in concorsi letterari. Col tempo ha approfondito la scrittura autobiografica e l’autofiction, trasformando la propria esperienza in uno strumento di consapevolezza e attivismo. “Mi sono accorta che nel mondo della disabilità le barriere non sono solo architettoniche, ma anche mentali e culturali”, spiega. “Ho deciso di combattere questa battaglia nel modo che mi è più congeniale: mettendo la mia storia a disposizione di altri per dare, in questo modo, un valore sociale alla scrittura e alla mia stessa esperienza. Per questo partecipo a convegni, incontri pubblici e, due anni fa, ho tenuto anche un TEDx”.
UNA VITA OLTRE LA DIAGNOSI
La storia di Ilaria inizia il 18 aprile di 28 anni fa nell’ospedale di Pescia, in provincia di Pistoia. “Appena nata, i medici capirono subito che qualcosa non andava”, racconta. “Per i miei genitori fu uno shock. Mi trasferirono immediatamente al Meyer di Firenze, senza che mia madre avesse nemmeno il tempo di vedermi. La prognosi era disperata: mi diedero solo tre giorni di vita”. Ma quei giorni passarono, e poi altri e altri ancora. “A quel punto ogni nuovo giorno poteva essere l’ultimo e, perfino quando qualche settimana dopo l’ospedale mi dimise, la convinzione era sempre la stessa: non potevo farcela e di lì a poco sarei morta”. Alla fine degli anni Novanta non si sapeva come affrontare la malattia. “Quando tornai a casa, insieme a me arrivò la domanda più difficile: e ora che facciamo? Così mio padre iniziò a girare per tutta l’Italia con la radiografia della mia colonna vertebrale ma nessuno aveva una risposta per lui”. Internet era solo agli albori ed era difficile trovare le informazioni giuste, ma il signor Parlanti non voleva arrendersi e alla fine trovò il nome di un chirurgo francese, il dottor Jean Dubousset dell’Hôpital Saint Vincent de Paul di Parigi. All’epoca Dubousset era già vicino alla pensione, tendeva a non accettare nuovi pazienti, ma acconsentì comunque a prendere la piccola Ilaria in cura. Dopo aver esaminato il suo caso disse: “La situazione è molto grave, possiamo provare a fare qualcosa ma non sono in grado di assicurare niente”.
Nel 1998, all’età di pochi mesi, Ilaria iniziò il suo percorso di cura a Parigi. “Dubousset mi ha salvato la vita”, afferma. “Ho subito 25 interventi chirurgici: 23 in Francia, uno all’ospedale Galeazzi dal dottor Andrea Luca e l’ultimo al Niguarda di Milano”. Non si trattava di guarire, ma di proteggere il cuore e i polmoni dagli effetti della malattia. Dopo qualche anno, Dubousset andò in pensione, lasciandola nelle mani del suo allievo, il dottor Philippe Wicart dell’Hôpital Necker. “Di lui mi ricordo tutto, compreso il nostro primo incontro. Era appena uscito dall’università con una specializzazione in ortopedia delle gambe e del ginocchio, ed io ero la sua prima paziente. Il mio caso aveva poco a che fare con i suoi studi universitari, ma accettò comunque di prendermi in carico. È stato un bellissimo rapporto medico-paziente”.
VIVERE CON LA SINDROME DI JARCHO-LEVIN
Grazie agli interventi chirurgici, ai corsetti ortopedici e a tanta fisioterapia, oggi Ilaria riesce a vivere con un buon grado di autonomia. Ma la malattia che continua ad avanzare porta con sé una serie di sfide quotidiane, come l’affanno che non la lascia in pace: “Se faccio uno sforzo fatico a respirare e devo fermarmi per recuperare energie”, dice. E poi ci sono le aritmie ventricolari e i disturbi neurologici alle gambe, tra cui ipertono e clonie, ma soprattutto il dolore cronico: 24 ore su 24, 7 giorni su 7. “Inoltre, la scorsa estate ho avuto una siringomielia al midollo spinale, che mi ha resa quasi paraplegica. Ho perso sensibilità alla gamba destra e ho dovuto operarmi. Oggi utilizzo un catetere per la derivazione peritoneale, che collega internamente il midollo all’addome”. Nonostante tutto, Ilaria non si lamenta. “La mia vita oggi è dedicata ai sogni, allo studio e alla scrittura. Ho molte sfide quotidiane da affrontare, ma cerco di farlo senza perdere di vista l'obiettivo: la mia personale visione della felicità. La mia carriera artistica sta prendendo il via, ho una famiglia che mi ama e tanti amici intorno, che non mi fanno mai sentire sola”, conclude. “Senza voler essere d’ispirazione per nessuno, credo che la mia esperienza possa offrire una prospettiva utile per rendere la società più inclusiva e far sentire meno sole le persone con disabilità che sono state meno fortunate di me”.