Giulia ha 24 anni e fin dalla nascita ha affrontato ricoveri, interventi chirurgici, trattamenti e lavaggi intestinali: “Nonostante tutto credo nella ricerca e spero in una cura”
Il sorriso è una scelta coraggiosa e ribelle se sei nato con la più rara e grave patologia gastrointestinale esistente: la pseudo-ostruzione intestinale cronica (CIPO), infatti, rappresenta la forma più severa di disturbo della motilità gastrointestinale, con episodi acuti e ricorrenti di occlusione e subocclusione, simili a un'ostruzione meccanica, causati dal malfunzionamento dell’apparato neuromuscolare enterico. “Porto sempre con me un ricordo di quando ero piccola”, racconta Giulia Cavallini, socia dell’associazione GIPsI Odv e affetta da CIPO fin dalla nascita. “Avevo sei anni ed ero ricoverata in ospedale: dal naso mi usciva il sondino naso-gastrico, dall’ascella pendeva il catetere venoso centrale ed ero circondata da ogni sorta di macchinari ronzanti che monitoravano tutte le attività del mio corpo”.
“In quel letto d’ospedale – prosegue la giovane – al di là della coltre di lenzuola, vedevo mia mamma e i miei nonni piangere. Non potevo tollerare oltre. E così scoppiai in una fragorosa risata, di quelle contagiose, che ti fanno venire le lacrime agli occhi. Sui loro volti, prima stupiti, iniziarono a comparire deboli sorrisi via via sempre più forti e sinceri”. Giulia aveva appena vinto la sua prima battaglia. La sua arma? Il sorriso.
Una battaglia contro la malattia iniziata fin dalla nascita
Giulia Cavallini è una giovane bergamasca bionda e solare. Ha 24 anni e, sommando tutti i ricoveri, deve averne passati almeno cinque in ospedale. “Ho iniziato a soffrire di CIPO ancor prima di essere nata”, racconta. “Dalle ecografie si vedeva un addome gonfio e disteso. Per questo, subito dopo la nascita sono stata trasportata d’urgenza agli Ospedali Riuniti di Bergamo. I medici pensavano che il motivo di quella pancina così gonfia fosse una cisti ovarica ed erano pronti a eseguire l’intervento, ma non appena inserito il catetere vescicale si sono accorti che non era necessario: da quel tubicino erano usciti 500ml di urina e l’addome si era sgonfiato, come un palloncino”.
Giulia venne dimessa dopo un mese con la diagnosi di megavescica e l’indicazione di eseguire otto cateterismi al giorno. “Me li faceva mia mamma, ma ben presto ho scoperto un modo per farne a meno”, racconta la ragazza. “Frequentavo le scuole elementari quando ho iniziato a sperimentare alcune manovre per riuscire a urinare senza l’aiuto del catetere: mi schiacciavo la pancia, mi piegavo, mi contorcevo. Con gli anni ho affinato la tecnica e ora utilizzo il catetere solo in caso di necessità”.
Purtroppo, però, la vescica non era l’unico problema di Giulia. “Il mio transito intestinale era incredibilmente lento e, già da neonata, facevo fatica a defecare. Così, quando io e mia mamma approdammo all’Ospedale dei bambini Vittore Buzzi di Milano, iniziarono gli interventi: prima una sfinterotomia anale, poi un’emicolectomia sinistra, infine la rimozione di un’ernia al mesentere. Dopo l’ennesimo ricovero per subocclusione è arrivata una prima diagnosi: pseudo-ostruzione intestinale cronica neuronale”. La patologia era stata identificata, ma la diagnosi corretta è arrivata solo vent’anni dopo, nel 2022. “Sono stata sottoposta a un test del DNA e l’indagine genetica ha dato esito positivo: il gene ACTG2 è mutato”, spiega Giulia. “Sono pochi caratteri, quattro lettere e un numero, ma mi hanno cambiato la vita”, racconta con amarezza. Il gene ACTG2 codifica per l’actina, proteina responsabile del corretto funzionamento della muscolatura liscia. La pseudo-ostruzione intestinale cronica di Giulia, quindi, è di natura miopatica e non neuronale, come diagnosticato inizialmente.
“Mi hanno spiegato che questa mutazione non promette niente di buono”, precisa la giovane. “La CIPO potrebbe attaccare all’improvviso la mia muscolatura liscia (stomaco, vasi sanguigni, utero, dotti biliari) e paralizzarla”. La malattia non dà avvisaglie e non perdona. Per questo la ginecologa le ha sconsigliato di avere figli, sarebbe troppo rischioso. “Sentire quelle parole è stato davvero tosto”, racconta Giulia con la voce rotta dall’emozione. “Eppure, anche in momenti come questo, io ti regalerò sempre un sorriso. Sono fatta così: questo è il mio modo di affrontare le difficoltà”.
Una vita scandita da ricoveri e trattamenti
“Ho perso il conto di quante volte sono finita in ospedale”, prosegue Giulia. “I miei ricoveri sono tutti uguali, quindi è facile confonderli. È sempre la stessa storia: inizio a vomitare (spesso vomito biliare) e ad avere fortissimi crampi addominali; vado al pronto soccorso dove, all’esame radiografico diretto, si accorgono dell’occlusione; i medici decidono di smettere di alimentarmi naturalmente e mi inseriscono un catetere venoso centrale per la nutrizione parenterale e un sondino naso-gastrico, poi iniziano a somministrarmi antibiotico e continuano con i lavaggi intestinali finché la situazione non inizia a migliorare. A volte sono blocchi intestinali dovuti a un fecaloma, ma più spesso si tratta di aderenze. È come se le pareti del mio intestino si ‘appiccicassero’ impedendo il normale transito”.
Per evitare questi episodi occlusivi, Giulia era arrivata a fare 3 lavaggi intestinali da 1000ml al giorno. “Contando che ogni lavaggio mi occupava per circa un’ora e mezza, praticamente la mia giornata trascorreva così”, afferma sardonica. “Quando a marzo di quest’anno sono andata a convivere, il mio compagno Nicholas si è stupito: ‘Mi avevi raccontato tutto - mi ha detto - ma vederlo con i miei occhi mi ha fatto davvero comprendere il dolore che vivi ogni singolo giorno’”.
“I lavaggi intestinali sono stati, per 23 anni, la mia tortura e la mia salvezza. Per questo motivo, quando sono stata presa in carico dal Policlinico di Milano e il dottor Basilisco mi ha detto di eliminarli ho avuto un momento di crisi. Facevo fatica a fidarmi”, confessa Giulia. “Mi ricordo persino la data da tanto ero scioccata: era il 27 aprile di quest’anno”. Poi, anche con l’aiuto della dottoressa Roggero, pediatra ed esperta di nutrizione parenterale del Policlinico, che la segue da quando è nata, Giulia è riuscita a vincere la paura e a tentare questa nuova strada.
Per Giulia, lo scorso mese di maggio rappresenta un vero e proprio spartiacque: c’è un prima e un dopo. La nuova terapia a base di lassativi e procinetici gastrointestinali ha funzionato e nel 2022 Giulia ha passato la sua prima estate libera dai lavaggi intestinali (da effettuare solo al bisogno). “Rispetto a prima, la mia quotidianità è migliorata, anche se i dolori ci sono e, purtroppo, mi accompagneranno per tutta la vita. Però sono stata al mare, mi sono riposata e mi sono goduta la compagnia di mia mamma e dei miei nonni. La mia famiglia è importante per me. Mia mamma mi è sempre stata accanto, 24 ore su 24, e anche mio papà, nonostante il divorzio, mi ha sempre accompagnato in ogni ricovero. E ora c’è anche Nicholas: stiamo insieme da cinque anni e, nonostante l’avversione che prova per gli ospedali, non ha mai mancato una visita”.
Una patologia che mette a dura prova anche la psiche
“Fin da piccola, ho passato così tanto tempo in ospedale che frequentavo la scuola lì: in reparto veniva un insegnante per le lezioni e le verifiche. Riuscivo a seguire tutte le materie, ma ovviamente ho perso molte amicizie, soprattutto negli ultimi anni”, spiega Giulia con un velo di rancore. Da adolescente, mentre frequentava l’Istituto Tecnico Economico (Ragioneria), Giulia non si confidava con nessuno e cercava di nascondere la sua patologia per non essere oggetto di scherno né di compassione. “Non volevo essere etichettata come ‘quella malata’ e sentivo ancora bruciare le ferite dell’infanzia”. Come molti bambini, infatti, anche la piccola Giulia trascorreva i mesi più caldi frequentando i campi estivi ma, a differenza degli altri, per lei quelli non erano periodi spensierati. “Frequentavo il Cre-Grest e, a volte, quando facevamo giochi d’acqua, indossavamo i costumi”, ricorda. “La mia pancia era gonfia e coperta di cicatrici. Per questo mi additavano e mi prendevano in giro, chiamandomi ‘panciottona’”. Adesso Giulia ricorda con un misto di tenerezza e ammirazione quella bambina bionda che si asciugava le lacrime di nascosto. “Le parole di quei bambini mi facevano piangere, certo, ma subito dopo mi facevano nascere dentro una forza brutale e inarrestabile: la voglia di lottare per me stessa e per la mia situazione”.
Gli anni sono passati e, nonostante la CIPO, la forza di Giulia non ha fatto che aumentare: “Sono consapevole della gravità della mia malattia e delle sofferenze che dovrò affrontare, ma credo nella ricerca e spero che un giorno si possa trovare una cura. È inoltre importante far conoscere la patologia, parlarne e documentarsi, perché la CIPO è tanto sconosciuta quanto devastante. Raccontare le storie di chi sta affrontando questa subdola malattia ogni giorno è uno dei modi per dare valore, anche terapeutico, a questa battaglia. Sui social, Instagram e Facebook, ho sempre indossato una maschera, per vergogna, insicurezza, paura”, confessa la ragazza. “Ho sempre postato foto ‘perfette’ e non ho mai fatto accenni alla mia malattia. Adesso basta. Voglio parlarne. Voglio che tutti sappiano chi è la vera Giulia, quello che vive e le sfide che deve affrontare ogni giorno”. Così Giulia ha deciso: indosserà il suo sorriso migliore.
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