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Il dato emerge da uno studio “genome wide” condotto presso l'Università di Cardiff

La crittografia è il campo più complesso dell’enigmistica proprio come gli studi di associazione genome-wide lo sono sul fronte della genetica. Questi modelli d’indagine battono a tutto campo l’intero repertorio genico di una popolazione, alla ricerca di mutazioni e variazioni che possano essere correlabili a una patologia. Nel caso della malattia di Huntington (HD) è di concreto interesse l’identificazione di alcune varianti geniche associabili alla progressione della malattia. Un gruppo di ricercatori inglesi ha pubblicato, sulle pagine della nota rivista The Lancet Neurology, i risultati di uno studio nel quale sono stati confrontati i dati ottenuti da oltre 200 pazienti Huntington, al fine di elaborare una scala di punteggio correlata al rischio di avanzamento della patologia.

La malattia di Huntington è una condizione neurodegenerativa che ha un impatto devastante sia sulla sfera fisica che su quella psicologica e cognitiva, ed è contraddistinta da movimenti involontari improvvisi, disturbi cognitivi e demenza. Purtroppo, si tratta di una malattia con tassi di progressione diversi, molto più rapidi in alcuni individui e decisamente più lenti in altri. Non è facile riconoscere il momento preciso in cui la patologia passa da una fase latente a una più attiva, e sebbene gli scienziati e i ricercatori siano riusciti, negli ultimi anni, a definire con esattezza l’origine genetica della malattia, riconducibile a una serie di mutazioni a livello del gene HTT, il meccanismo che, in certi pazienti, innesca un rapido e irrefrenabile avanzamento della sintomatologia è ancora avvolto nell’ombra.

Esaminando i dati di 218 soggetti con HD e con mutazione genetica acclarata, arruolati nello studio clinico prospettico osservazionale TRACK-HD tra il 2008 e il 2011, i ricercatori di Cardiff hanno elaborato un algoritmo capace di incrociare parametri ottenuti da dati motori e cognitivi e informazioni sul volume cerebrale provenienti dalle valutazioni di imaging raccolte mediante risonanza magnetica. Tutto ciò al fine di determinare un punteggio di rischio di progressione della malattia. In parallelo, sono stati utilizzati i dati di 1773 pazienti dello European Huntington’s Disease Network REGISTRY già sottoposti ad analisi genotipica, per generare un secondo algoritmo di progressione da porre a confronto. Tutti questi dati, riconducibili alla progressione di malattia, sono stati impiegati all’interno di uno studio di associazione genome-wide effettuato su soggetti dello studio TRACK-HD e dello studio REGISTRY, alla ricerca di variazioni genetiche su ampia scala in grado di associarsi ai dati fenotipici.

“La solidità della nostra analisi è data dal fatto che le varianti identificate hanno un effetto importante sulla malattia”, conferma Lesley Jones, tra gli autori della ricerca e professore presso la Cardiff University del Galles. I ricercatori, infatti, hanno correlato i punteggi dell’algoritmo con i principali gruppi di dati raccolti e, in aggiunta a ciò, hanno confrontato i punteggi con i cambiamenti motori e funzionali evidenziati sulla base di un'apposita scala di valutazione, la Unified Huntington’s Disease Rating Scale (UHDRS), confermando i riscontri ottenuti.

Nello studio di associazione genome-wide, tali dati sono stati posti in correlazione con l’espressione di diversi geni sul cromosoma 5, tra cui DHFR, MTRNR2L2 e MSH3. Sia tra i soggetti arruolati nel trial TRACK-HD che nello studio REGISTRY è emersa una correlazione particolarmente evidente con il gene MSH3, ritenuto un modulatore della malattia di Huntington. Inoltre, un polimorfismo del singolo nucleotide (SNP) è risultato particolarmente significativo e codifica per un cambiamento aminoacidico proprio a livello di MSH3. Tali associazioni si sono confermate anche dopo aver aggiustato i valori secondo l’età dei soggetti, a dimostrazione che MSH3 gioca un ruolo cruciale nella progressione di malattia.

MSH3 è pertanto divenuto oggetto di interesse particolare, viste anche le sue implicazioni nella patogenesi di malattia confermate in modelli murini. Il silenziamento di questo gene riduce la progressione della malattia, aprendo la strada allo sviluppo di nuove terapie che ne rallentino il decorso. Ecco perché le innovative e future opzioni terapeutiche derivate da ricerche come questa potrebbero frenare la corsa della malattia, prolungando la sopravvivenza dei pazienti e migliorandone la qualità di vita.

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