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Paola Bianchi

La dott.ssa Paola Bianchi (Milano): “Riconoscere questa patologia non è facile perché bisogna fare diagnosi differenziale con molte altre forme di anemia”

Si possono considerare tra le cellule più attive dell’organismo, dal momento che hanno l’incarico di trasportare l’ossigeno a tutti i tessuti e di raccogliere anidride carbonica, in un circuito perenne che garantisce la sopravvivenza dell’individuo: sono i globuli rossi, cellule prive di nucleo che, per svolgere il loro ruolo, hanno bisogno di grandi quantitativi di energia, ricavata dai processi di glicolisi in cui il glucosio viene degradato a piruvato. Essendo la glicolisi l’unica via energetica dei globuli rossi, la carenza di uno dei suoi enzimi può esitare in anemia emolitica cronica, come avviene nel caso del deficit di piruvato chinasi (deficit di PK o PKD).

La piruvato chinasi (PK), infatti, è un enzima che interviene nell’ultima tappa del complesso meccanismo della glicolisi, catalizzando la conversione di fosfoenolpiruvato in piruvato, con conseguente produzione di ATP, la riserva energetica dell’organismo; poiché la PK ricopre un ruolo chiave nel processo a cui i globuli rossi ricorrono per sostenersi, la sua assenza si traduce in una rara patologia, il deficit di PK, associata ad anemia, anche grave, e ad emolisi.

Il DEFICIT DI PIRUVATO CHINASI: INQUADRAMENTO CLINICO

Il deficit di PK è una malattia clinicamente eterogenea con una prevalenza stimata che è compresa tra 3,2 e 8,5 casi per milione di abitanti nella popolazione occidentale. “Si tratta di una patologia congenita caratterizzata da anemia emolitica cronica”, spiega la dott.ssa Paola Bianchi, biologa della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. “Essa rientra nel gruppo delle anemie emolitiche congenite, che comprende sia i difetti della struttura e della permeabilità di membrana e del metabolismo eritrocitario, sia le anemie diseritropoietiche, causate proprio da difetti nella produzione dei globuli rossi. Di ognuna di queste condizioni, i tratti tipici sono un’anemia di grado variabile, da lieve a severa, e un’emolisi cronica che può dare origine ad ittero e splenomegalia”. Solitamente, i sintomi del deficit di PK hanno esordio in età neonatale, ma può accadere che possano manifestarsi anche in età adulta. Nel 70% casi, all’anemia emolitica si possono associare ittero, iperbilirubinemia e splenomegalia, mentre altre manifestazioni sintomatiche comprendono calcolosi biliari, sovraccarico di ferro (a prescindere da eventuale terapia con trasfusioni di sangue) e, in casi rari, la presenza di ulcere sulle gambe. Altre gravi complicazioni includono ipertensione polmonare, cirrosi epatica e osteoporosi.

LA DIAGNOSI

La diagnosi di deficit di PK può essere difficile perché si basa sull’esclusione di altre forme di anemia emolitica più comuni, diverse per eziologia ma simili per presentazione clinica”, precisa Bianchi. “Il riscontro di anemia in seguito ad un esame emocromocitometrico suggerisce di eseguire altri test, come il dosaggio della bilirubina e dell’enzima lattato deidrogenasi, il consumo di aptoglobina e la verifica di un eventuale aumento dei reticolociti, per confermare la natura emolitica dell’anemia. Dopo aver escluso possibili difetti più comuni della membrana eritrocitaria, si passa alla determinazione della carenza dell’enzima PK, che non si esegue di routine in tutti i laboratori, ma rappresenta l’indicazione a un’analisi di secondo livello”. Purtroppo, è possibile che molti pazienti con forme di anemia rare riescano ad ottenere una diagnosi corretta soltanto dopo alcuni anni e, in qualche caso, dopo aver consultato diversi centri. Oggi, l’arrivo di metodiche di biologia molecolare sta facilitando la diagnosi di patologie rare come il deficit di PK. “Grazie alle tecnologie di sequenziamento di nuova generazione (NGS, Next Generation Sequencing) si vanno a ricercare le mutazioni nel gene PKLR, che codifica per l’enzima piruvato chinasi”, aggiunge Bianchi. “Il problema è che sono state descritte oltre 300 differenti mutazioni associate al deficit di PK: pertanto, in presenza di nuove varianti genetiche, è sempre utile avere una conferma mediante la verifica di una diminuita attività enzimatica”. 

Il capitolo dei difetti enzimatici dei globuli rossi comprende uno svariato numero di patologie differenti. Perciò la diagnosi differenziale deve tener conti del tipo di emolisi, acuta o cronica, ma anche della possibile presenza concomitante di altri sintomi non ematologici, come nel caso del deficit di fosfoglicerato chinasi o delle gravi forme di deficit di triosofosfato isomerasi, accompagnate da grave suscettibilità alle infezioni e ritardo mentale. “Le cause di una mancata diagnosi di deficit di PK - riprende la dott.ssa Bianchi - possono annidarsi nelle forme lievi, in cui l’anemia si manifesta in età adolescenziale e adulta o in concomitanza di episodi infettivi, o ancora in gravidanza; oppure possono trovare ragione nelle forme molto severe, a volte associate a morte in utero, confuse con altri tipi di anemia. L’impiego dei test NGS ci aiuta a ridurre i casi di mancata diagnosi, ma la loro corretta interpretazione è materia di personale esperto e qualificato. Ecco perché è necessario dar vita a delle reti formate dai centri di riferimento per la patologia verso cui indirizzare il paziente sospetto, che, in tal modo, può ricevere una diagnosi tempestiva e affidabile”. 

IL TRATTAMENTO

Tradizionalmente, il trattamento del deficit di PK si basa su terapie di supporto che includono trasfusioni di sangue e splenectomia (rimozione chirurgica della milza), interventi che sono entrambi associati a rischi a breve e lungo termine. Le trasfusioni sono spesso necessarie; in genere, nel bambino e nel neonato, quando l’anemia si accentua, il carico trasfusionale è maggiore e si va riducendo in età adolescenziale e adulta, nel momento in cui il paziente riesce a mantenere un livello stabile di emoglobina per periodi più prolungati. Nei pazienti a maggior fabbisogno trasfusionale, si esegue una splenectomia. “Un recente studio apparso sulla rivista Blood conferma che la splenectomia non cura completamente l’anemia ma porta ad un aumento dell’emoglobina e riduce il fabbisogno trasfusionale”, afferma Bianchi. “Tuttavia, è associata al rischio di infezioni o trombosi, per cui si esegue solo in determinate situazioni di gravità”. Esiste, comunque, una percentuale di pazienti che non rispondono alla splenectomia e che restano trasfusione-dipendenti. Un possibile intervento curativo è rappresentato dal trapianto di midollo osseo che, tuttavia, viene effettuato in pochi casi a causa dei significativi rischi che comporta. 

Recentemente, il farmaco mitapivat, un attivatore allosterico dell’enzima PK, è stato approvato negli Stati Uniti per il trattamento dell’anemia emolitica nei pazienti adulti con deficit di PK. In un articolo pubblicato sulla rivista The New England Journal of Medicine sono stati descritti i positivi risultati di un trial clinico di Fase II, a cui ha preso parte anche l’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, condotto per la valutazione di questa molecola, che oggi rappresenta la prima vera opportunità terapeutica per il deficit di PK.

Un promettente filone di ricerca è costituito dalle terapie avanzate e, in modo particolare, dalla terapia genica, in attualmente in sperimentazione per il trattamento del deficit di PK in un trial clinico di Fase I.

Lo studio delle varianti molecolari e della correlazione genotipo-fenotipo può essere utile per valutare quale sia il miglior approccio alle nuove forme di trattamento del deficit di piruvato chinasi, sebbene siano molti i parametri che influenzano il quadro clinico della patologia. “In un articolo pubblicato sulla rivista Haematologica abbiamo spiegato che mutazioni particolarmente deleterie, in doppia eterozigosi o omozigosi, sono maggiormente associate all’aumentato bisogno trasfusionale o alla necessità di splenectomia, nonché a un quadro clinico peggiore rispetto a quello di pazienti che hanno due mutazioni missenso”, aggiunge Bianchi. “Si tratta di un risultato importante, specialmente in riferimento alle nuove opportunità terapeutiche che stanno per arrivare sul mercato”. 

LE PRIORITÀ: EPIDEMIOLOGIA E MONITORAGGIO DEI PAZIENTI 

In questo momento è importante far luce sugli aspetti epidemiologici legati al deficit di PK”, conclude la dott.ssa Paola Bianchi. “Purtroppo, molti sono i pazienti che ancora non ricevono una diagnosi. Tuttavia, grazie al contributo delle Reti di Riferimento Europee (ERN), si stanno mettendo a punto degli appositi Registri di patologia. È anche molto importante che i pazienti vengano monitorati nel tempo, specie per complicazioni associate al deficit di PK come il sovraccarico di ferro, che si può sviluppare anche indipendentemente dalle trasfusioni. Le informazioni maturate su questa patologia negli ultimi anni ci stanno aiutando a rivalutare in maniera dinamica i criteri di severità della stessa e a gestire al meglio i pazienti, soprattutto in previsione dell’arrivo di nuove terapie”.

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