Uno studio pubblicato su American Journal of Perinatology analizza questa possibilità e le terapie possibili
STATI UNITI - L'infezione congenita da citomegalovirus (CMV) colpisce 1 bambino su 150, talvolta porta con sé conseguenze gravi e debilitanti come ritardo nello sviluppo, sordità e cecità.
L'infezione, che avviene attraverso il contatto diretto con saliva, urina o altri liquidi biologici, è particolarmente pericolosa quando colpisce la madre durante i primi mesi di gravidanza e viene trasmessa al feto. Ne esistono di due tipi, quando il virus colpisce la madre per la prima volta si parla di infezione primaria e il feto viene contagiato nel 30 per cento dei casi, quando invece la madre è già venuta in contatto con lo stesso virus o con un altro ceppo in precedenza si parla invece di infezione non primaria e la frequenza di contagio scende all'1 per cento. In seguito all'infezione avviene la sieroconversione, si osserva cioè la formazione di anticorpi IgG e IgM, diretti contro il virus, nel siero e il paziente passa da sieronegativo a sieropositivo.
Dato il grande impatto sociale ed economico dell'infezione congenita da CMV, negli Stati Uniti si discute dell'introduzione di uno screening a livello nazionale e le dottoresse Julie Johnson e Brenna Anderson del Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia della Brown University di Providence analizzano le varie possibilità disponibili in un articolo pubblicato su American Journal of Perinatology.
Le linee guida americane attuali non prevedono screening ma un'attenzione maggiore all'igiene, soprattutto nel caso di donne che vengono a contatto con bambini piccoli: è stato provato infatti da alcuni studi che le donne che adottano piccoli accorgimenti, come lavarsi le mani di frequente e non condividere cibo con i bambini, tendono a contrarre meno il virus. Uno studio recente tuttavia dimostra che solo il 13 per cento delle donne e il 7 per cento degli uomini sono a conoscenza dei rischi.
Grazie alla disponibilità di tecniche avanzate, l'attenzione della ricerca è ora volta a sviluppare un metodo di screening sicuro e efficace: un metodo già utilizzato è il test di sieroconversione, che individua la presenza di IgG e IgM nel siero, tuttavia spesso si verificano falsi positivi, data la sovrapposizione con altre infezioni.
Il test più efficace è al momento quello dell'avidità delle IgG, che misura l'affinità degli anticorpi al virus: nel caso in cui il paziente sia già venuto a contatto con lo stesso virus, l'affinità sarà molto elevata, nel caso di un'infezione primaria invece, l'affinità sarà ridotta.
Al momento sono in studio anche un vaccino e una terapia con globuline iperimmuni, che consiste nella somministrazione di anticorpi specifici contro il virus raccolti da donatori selezionati. Secondo i dati di un primo studio questa terapia è in grado di far diminuire la frequenza di contagio del feto di circa la metà, ulteriori studi sono in corso per confermarne l'efficacia
“Gli screening per l'infezione congenita primaria da CMV - concludono le due ricercatrici - sono migliorati nell'ultimo decennio e, se utilizzati nel modo corretto, possono risultare anche economicamente vantaggiosi. Tuttavia, è necessario dimostrare l'efficacia e la sicurezza delle terapie prima di mettere a disposizione lo screening”.