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Il prof. Guido Finazzi spiega come da sintomi poco specifici come febbre, dimagrimento, sudorazione notturna e prurito si possa arrivare alla diagnosi e quindi alla corretta terapia

Guido Finazzi per policitemia veraLa mielofibrosi è una rara patologia cronica che si presenta con una lunga serie di sintomi, spesso aspecifici e, pertanto, non immediatamente associati alla malattia: febbre, dimagrimento, sudorazione notturna, prurito e dolore alle ossa non necessariamente sono legati ad una patologia del midollo osseo. Le alterazioni del quadro ematologico con l’anomalia delle conte di globuli rossi, bianchi e piastrine sono già un segnale più specifico, come anche l’ingrossamento della milza (splenomegalia), manifestazione piuttosto comune nei malati di mielofibrosi che si accompagna ad una sequela di disturbi (dolore addominale, difficoltà digestive, diarrea) che peggiorano in misura notevole la qualità di vita del paziente.

Tuttavia, è proprio la presenza di fibrosi nel midollo a causare i sintomi più gravi perché impatta direttamente sul conteggio di globuli rossi e piastrine, provocando anemia e aumentando il rischio di emorragie. Nonostante buona parte dei pazienti sia asintomatica al momento della diagnosi, l’andamento della malattia è cronico e progressivo. Uno dei rischi più concreti è il passaggio da mielofibrosi a leucemia acuta, con conseguenze drammatiche sulla qualità e sulle aspettative di vita del paziente. Risulta, per questo, fondamentale giungere ad una diagnosi in tempi brevi che possa consentire di stabilire una prognosi da cui deriverà un adeguato trattamento. “La diagnosi di mielofibrosi si pone in accordo ai criteri del WHO pubblicati di recente sulla rivista Blood” – afferma il prof. Guido Finazzi, responsabile Unità Semplice Malattie Mieloproliferative Croniche della U.O.C. di Ematologia dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo – “Tali criteri sono stati rinnovati rispetto alla versione precedente del 2008 con alcune modifiche rilevanti a cui la scuola italiana, e il nostro centro in particolare, hanno contribuito”.

“Per la mielofibrosi i nuovi criteri diagnostici distinguono dalla mielofibrosi vera e propria una condizione denominata mielofibrosi pre-fibrotica” – prosegue l’esperto bergamasco – “Si tratta di una forma preliminare, che precede la mielofibrosi vera e propria, è più lieve e si distingue per il fatto che il midollo osseo ha le caratteristiche istologiche della mielofibrosi, soprattutto per ciò che riguarda l’aspetto dei megacariociti, senza che sia ancora comparsa la componente fibrotica. Il concetto è simile a quello della policitemia vera mascherata (n.d.r. masked polycythemia) e si collega al discorso della precocità della diagnosi. A questo stadio è, infatti, già possibile confermare la presenza della malattia e prevedere una sua eventuale progressione”. Nel caso della mielofibrosi pre-fibrotica il paziente si presenta in buone condizioni generali, perciò è più frequente che la diagnosi emerga da un emocromo alterato mentre il soggetto stesso è quasi del tutto asintomatico. Tra i criteri più seguiti per questa forma preliminare c’è senza dubbio una marcata proliferazione dei megacariociti, le cellule del midollo osseo a partire da cui sono prodotte le piastrine indispensabili nel processo di coagulazione del sangue. Tale aumento dei megacariociti è accompagnato da una riduzione nella produzione di globuli rossi (eritropoiesi) ma, soprattutto negli ultimi anni, è divenuto importante il riscontro della genetica.

“Nella maggior parte dei pazienti, la malattia è innescata da ben precise alterazioni genetiche - soprattutto, ma non solo, a danno del gene JAK2 (Janus Activated Kinase 2) - che costituiscono un criterio fondamentale per la diagnosi, anche della forma vera e propria  della mielofibrosi” – cspiega ancora Finazzi che conferma come i criteri per la diagnosi della mielofibrosi gravitino intorno al riscontro istologico. “Diversamente dalla policitemia vera in cui la biopsia midollare è divenuta obbligatoria soltanto in tempi più recenti per distinguere i casi più precoci, la biopsia nella diagnosi di mielofibrosi ha sempre rappresentato un passaggio obbligato”. Appare perciò evidente come la diagnosi di mielofibrosi faccia sempre capo al ruolo dell’anatomo-patologo che studia il vetrino e descrive la presenza della fibrosi, la componente più caratteristica e, al tempo stesso pericolosa, della malattia.

Qual'è dunque il corretto iter da seguire nel caso si sospetti la mielofibrosi?

"Nell'80% dei casi il primo sospetto arriva dal medico di base - conclude Finazzi - che richiede un esame emocromocitometrico (noto come emocromo). Nel caso di alterazioni significative (o anche nel caso di una palese splenomegalia), è necessario rivolgersi all'ematologo. Sarà poi l'ematologo a stabilire il percorso diagnostico, che può includere la biopsia, che può essere eseguita ambulatorialmente. Una volta ottenuta la diagnosi sarà lo stesso specialista a mettere in atto il piano terapeutico adeguato al paziente."

Per saperne di più sulla corretta terapia per la mielofibrosi leggi: "Mielofibrosi, quali possibilità terapeutiche per questa neoplasia?"

La sezione mielofibrosi è realizzata con il contributo incondizionato di Novartis.

Policitemia vera, Novartis

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